Gravity **1/2
Scritto da Alfonso Cuaron assieme al figlio Jonas e passato attraverso una lunghissima preparazione, Gravity apre la 70° Mostra di Venezia e segna il ritorno al cinema del suo regista a distanza di 7 anni dall’ultimo I figli degli uomini, presentato proprio al Lido nel 2006.
Impegnati con altri tre astronauti in una ordinaria missione spaziale di manutenzione di un satellite, la dottoressa Ryan Stone, al suo primo viaggio e l’esperto Matt Kovalsky finiscono per rimanere soli nello spazio, quando un errore dei sovietici nello smantellare un vecchio satellite, provoca una reazione a catena di detriti che li travolge e distrugge il loro shuttle.
I due cercheranno di raggiungere la stazione spaziale internazionale, per ritornare a casa, ma non sarà così semplice, con l’ossigeno che sta per terminare ed il carburante che scarseggia.
Gravity, così come Vita di Pi e All is lost è un altro viaggio alla ricerca di se stessi. Qui il naufragio è nell’immensità silenziosa ed infinita dello spazio e non nell’azzurro spesso minaccioso dell’oceano.
Il film di Cuaron segue uno sviluppo tradizionale, fatto di angoscia iniziale, vani tentativi di organizzare un piano di soccorso, abbandono al pessimismo e quindi trionfo della volontà di sopravvivere, nonostante tutto.
L’originalità di Gravity sta ovviamente nella sua ambientazione spaziale, nella capacità di regalare immagini inedite e di grandissima suggestione visiva, che spesso sovrastano persino l’urgenza delle emozioni.
Con la Terra che rimane presenza ingombrante e inattingibile sempre sullo sfondo, i protagonisti giocano ognuno la parte che ci si aspetta: l’astronauta esperto, alterna sangue freddo e ironia, la giovane dottoressa alla prima missione è sopraffatta dal panico e dal destino avverso, prima di scoprirsi – ad un passo dalla fine – novella Ellen Ripley.
Come al solito, la fotografia di Chivo Lubeski è meravigliosamente evocativa nonostante l’uso massiccio della CGI ed asseconda perfettamente il virtuosismo di Cuaron, che approfitta dell’assenza di gravità per far volare la macchina da presa in lunghissimi piani sequenza, all’esterno ed all’interno delle stazioni e dei velivoli spaziali.
Siamo lontani tanto dal Kubrick di 2001, quanto dallo Scott di Alien ed il film gioca la sua credibilità anche grazie a due interpreti, capaci di coinvolgere emozionalmente lo spettatore in questo tour de force, che ha il pregio di non affastellare inutili digressioni ed astenersi da flashback scontati.
Cuaron usa il 3D con grande competenza, per immergere il suo pubblico nel nero senza fine dello spazio e per rendere evidente la difficoltà di percorrere distanze in un ambiente vuoto per definizione.
E quando la stazione spaziale esplode letteralmente, colpita dalla pioggia di detriti, le immagini ricordano l’esplosione finale di Zabriskie Point. Eppure alla forza visionaria e perturbante ed al talento di Cuaron nella messa in scena, fa da contraltare una storia tutto sommato prevedibile, che evita ogni deriva metafisica ed ogni vero orrore e che tenta inutilmente di costruire un passato significante per i due protagonisti: forse è stata oggetto di troppi compromessi con la produzione, nel corso dei lunghi tre anni di lavorazione.
Ma il risultato è deludente, perchè Gravity – al di là della grandiosa messa in scena – non riesce ad essere nè una riflessione filosofica sul tempo e lo spazio, nè un quadro astratto e silenzioso, un gioco puramente formale, come avrebbe potuto. Il film sceglie una terza strada, innocua e tradizionale, assecondando il trito clichè dell’uomo solitario che, nonostante le avversità, riesce nell’impresa apparentemente impossibile.
Ci voleva un po’ più di coraggio nel raccontare l’odissea della dottoressa Stone, uscendo dai canoni della narrativa classica hollywoodiana, che invece Cuaron ripercorre fedelmente, fidandosi troppo della forza della sua regia e lasciando l’amaro in bocca per quello che avrebbe potuto essere e non è stato.
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