Vita di Pi ***
Confesso di essermi avvicinato al nuovo film di Ang Lee con una certa dose di sano scetticismo. Le prime immagini ufficiali, di un formalismo quasi pittorico, un certo spiritualismo diffuso nella trama, le prime reazioni americane positive ma contraddittorie, la fama di essere un film in cui alle ambizioni altissime non avrebbe fatto seguito un adeguato supporto filosofico e morale, hanno giocato ad alimentare il dubbio di trovarsi di fronte ad un film più furbo che riuscito.
E invece questo Vita di Pi, gratificato da un successo di pubblico che cresce di settimana in settimana e da 11 recentissime nominations agli Oscar, è un film magnifico, trascinante.
Certo ci sono nella primissima parte alcune ingenuità e semplificazioni spiritualiste, che rimangono però sullo sfondo, rispetto all’avventura struggente e magica del giovane Pi Patel e della tigre Richard Parker, su una barca scampata ad un naufragio nell’Oceano Pacifico.
Il film comincia in Canada, quando uno scrittore in crisi cerca di farsi raccontare dall’indiano Pi la storia della sua vita, in cerca d’ispirazione per un nuovo romanzo.
Pi accetta volentieri di ricordare i fatti straordinari di cui è stato protagonista.
Il racconto comincia in un piccolo paese indiano, Pondicherry, colonia francese in cui cresce il giovane Piscine. Il suo nome, suggerito al padre da un amico nuotatore, in ricordo di una memorabile piscina francese, è oggetto di scherno tra i compagni di classe, fino a che non viene abbreviato in Pi, con una memorabile lezione sul rapporto tra il diametro e la circonferenza del cerchio.
Pi è indu, ma vive il rapporto con le religioni in maniera del tutto originale. Si lascia sedurre dal cristianesimo, prima, quindi dal islam poi, suscitando i rimproveri bonari del padre, convinto razionalista, e la comprensione della madre.
E’ la parte meno interessante del film, quella che, secondo alcuni, vuole forse richiamarsi ad un sincretismo culturale e religioso un po’ debole e buonista, presto dimenticato dall’incalzare dell’avventura.
I Patel gestiscono a Pondicherry un enorme giardino botanico ed uno zoo, fino a quando i venti di crisi non li spingono a cercare fortuna altrove, emigrando in Canada.
Imbarcatisi con tutti gli animali su un cargo giapponese, affrontano il viaggio verso il Nuovo Continente. Una notte però, mentre infuria una bufera paurosa e sconvolgente, la nave ha un guasto ed affonda. Pi viene costretto a lanciarsi su una delle scialuppe e si ritrova solo in mezzo al mare, in compagnia di un gruppo eterogeneo di animali: c’è una zebra ferita, una scimmia pacifica, una iena aggressiva e vorace e una enorme tigre del Bengala, che allo zoo hanno battezzato Richard Parker.
La sua famiglia è perduta, per sempre.
Ben presto sulla barca rimarranno solo Pi e la tigre. La convivenza sarà difficile, paurosa, piena di pericoli e di scoperte.
La lotta per la sopravvivenza creerà alleanze momentanee e sorprese impreviste. Ci saranno pesci volanti e meduse fluorescenti, razioni di fortuna e isole magiche e carnivore, fino all’approdo finale in Messico, quando i destini di Pi e di Richard Parker si separeranno definitivamente.
Ang Lee mette in scena uno spettacolo grandioso, sfruttando l’immensità del mare e del cielo, costruisce un viaggio memorabile, che lascia letteralmente a bocca aperta. E’ magistrale la capacità di mantenersi in equilibrio tra due registri contrapposti: quello fantastico e avventuroso – che non ha nulla da invidiare alla grandiosità di un James Cameron – e quello più intimo e sentimentale, con il quale descrive il rapporto difficile e complesso, di amore e odio, che si viene ad instaurare con la tigre.
Nel lungo e faticoso confronto tra Pi e l’animale non c’è nulla di scontato: la tigre non rinuncia mai al suo istinto predatorio ed il protagonista ne è sempre consapevole. Non ci sono semplificazioni disneyane, nè buonismo animalista, ma Lee riesce a restituire tutta la complessità di un rapporto letteralmente impossibile, in cui la paura e lo spirito di sopravvivenza sono fattori imprescindibili.
E’ evidente che in balia delle onde, degli squali, delle tempeste e delle insidie del mare, per 227 giorni, senza più la sua famiglia ed i suoi cari, Pi finisca per chiedersi il senso di quella sfida, che mette in crisi il suo spirtualismo.
E’ una reazione perfettamente plausibile e sulla quale Lee non mi sembra forzare la mano.
Ma quello che rende indimenticabile questo Vita di Pi è proprio il controverso finale.
Fermatevi qui se non volete avere anticipazioni non richieste.
Il protagonista, al termine del suo racconto magico, confessa allo scrittore anche un’altra versione della sua storia. Una versione realistica, se volete, che la compagnia assicurativa del cargo ha preteso, per chiudere il rapporto sul naufragio.
E’ una versione tragica, crudele, disumana oltre ogni limite.
Un po’ come avviene alla fine de La vita è bella, quando il padre cerca di proteggere l’innocenza del figlio dall’orrore del lager, raccontandolo come un gioco a cui tutti sembrano partecipare volontariamente, il viaggio magico di Pi con la tigre del Bengala è il modo scelto dal protagonista per rendere tollerabile, innazitutto a se stesso, l’orrore di quel naufragio.
Qualcuno ha scritto che Lee prende in giro i suoi spettatori, mettendo in dubbio, alla fine, tutto quello che abbiamo visto.
Ma non è così.
Vita di Pi riafferma invece ancora una volta la forza inesauribile della fantasia, la bellezza della dissimulazione e del racconto fantastico, la necessità della fabula: talvolta capaci di dare un senso e di rendere tollerabile il dolore più grande.
Non c’è nessuna ambiguità possibile nel racconto di Lee, persino qualche caduta di tono trova nella durezza senza scampo del finale, la sua giustificazione.
Mai happy ending è stato più sinistro ed amaro.
Lontanissimo dalla spiritualità superficiale, quanto dallo sfoggio puramente muscolare delle infinite possibilità del mezzo cinematografico, Lee nutre la nostra fantasia ed il nostro stupore di spettatori con la potenza di un viaggio tutto interiore, con l’immaginazione “necessaria” di un ragazzo, costretto a fare i conti con la ferocia ed il coraggio, che ognuno porta dentro di sè.
Tutta la parte ambientata nell’oceano è un susseguirsi ininterrotto di sequenze memorabili, che solo la magia del cinema può restituire.
Chi si è soffermato a valutare il sincretismo teologico iniziale o una certa ingenuità didascalica della parte indiana ha completamente equivocato il senso del film e ne ha sottovalutato non solo la forza narrativa, ma persino le capacità evocative.
Ang Lee è un regista che sfugge alle facili interpretazioni: la sua capacità di spaziare tra cinema americano e cinese, tra produzioni mainstream internazionali e piccole opere personali, tra film lontanissimi per genere, ambientazione, tempi, ne fanno un regista apolide per definizione.
Il suo cinema è sempre alla ricerca dell’inedito e lascia talvolta spiazzati i recensori più pigri, che faticano ad incasellarne esiti ed ambizioni.
I suoi film sono quasi sempre però accomunati da personaggi alla ricerca della propria identità, in un ambiente ostile e pieno di insidie.
Sin da Il banchetto di nozze e Ragione e sentimento, passando per gli straordinari Tempesta di ghiaccio e Brokeback Mountain, ma anche nei meno riusciti Hulk e Motel Woodstock, il percorso dei suoi protagonisti è spesso segnato dal tentativo di affermarsi, si farsi letteralmente “riconoscere”.
Vita di Pi è un altro passo nella stessa direzione. Un viaggio che è innanzitutto dentro di sè, nell’abisso dell’orrore, alla ricerca di un modo per sopravvivere non solo al naufragio, ma al peso intollerabile dei ricordi ed alla crudeltà della vita.
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