In concorso
Michael Haneke continua a sfidare il nostro statuto di spettatori e il nostro confortevole mondo borghese, con questo dolente Amour. Il suo cinema si puo’ anche respingere, ma le sue ossessioni restano nella memoria a lungo.
E’ la fine dell’amore quella che si racconta qui. Non i tempi felici e spensierati dell’innamoramento, ne’ quelli magari tempestosi e costruttivi di una lunga relazione. No, qui siamo al momento piu’ straziante della malattia terminale e del conforto reciproco.
I protagonisti sono una coppia di insegnanti di musica, Georges e Anne. Hanno quasi ottant’anni, una figlia musicista che vive all’estero, con un marito inglese.
Assistono una sera al concerto di un ex allievo che si sta facendo strada nel mondo della musica classica.
La mattina dopo, Anne ha un piccolo mancamento, rimane immobile e non risponde piu’ al marito. E’ solo l’inizio di un calvario. Dopo un primo ictus, Anne rimane paralizzata nel lato destro del corpo.
Il marito si prende cura di lei amorevolmente, ma per chi ha vissuto la propria vita in piena autonomia, essere costretti a dipendere interamente dagli altri e non avere piu’ la possibilita’ di muoversi e’ un’umiliazione senza fine.
Si susseguono le infermiere. Il brillante pianista dell’inizio, ignaro di tutto, arriva a far visita ai due insegnanti, sempre piu’ sconfortati.
Giunge al capezzale della madre anche la figlia Eva, che alterna inutili scenate isteriche a momenti in cui rivela una crudele anaffettivita’ nei confronti dei genitori: prima suggerisce di mandare Anne in un centro specializzato, quindi rimane sconvolta dai suoi peggioramenti.
Un secondo ictus costringera’ infatti la madre a letto, pressoche’ incapace di muoversi e di parlare. La regressione e’ pressoche’ completa. Georges si sforza di parlarle, le sta a fianco con enorme amorevolezza.
Ma siamo pur sempre in un film di Haneke ed allora ecco che improvvisamente la dedizione e la compassione di Georges lo spingono ad un gesto forte, defintivo, forse meditato a lungo, anticipato dalla primissima scena del film. Un gesto che spazza via di un colpo qualsiasi stupido dibattito etico o morale sulla liberta’ di arrivare alla fine con dignita’ e compassione.
Un gesto grande, necessario, perche’ nessuno davvero e’ più interessato a Georges ed Anne. Non la figlia, ne’ gli altri familiari, non lo Stato o i medici, neppure le infermiere, a cui importa solo l’argent.
Amour e’ allora anche un film sul lungo addio alla vita, che arriva nel piu’ vuoto abbandono. Il finale con la figlia Eva che si aggira soddisfatta nella casa vuota e’ l’ennesimo schiaffo alla nostra falsa coscienza.
Haneke per una volta sembra voler mettere da parte le provocazioni, per raccontare l’immoralità della morte, sempre più relegata fuori campo, ed invece oscenamente presente con tutto il suo lento cupio dissolvi in Amour.
Jean-Louis Trintignant e’, una volta di più, straordinario: il suo corpo, il suo volto, i suoi occhi, che hanno abitato l’ultimo mezzo secolo di cinema europeo, parlano ancora del romanzo della vita, con invidiabile bellezza e sincerita’.
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