a cura di Alessandro Vergari, Fabio Radaelli, Marco Albanese
Il 2023 è stato fino a questo momento soprattutto l’anno dell’affermazione della piattaforma Paramount+, dove, accanto ai titoli dei principali franchise della major, come Star Trek, South Park e The Offer, che racconta con toni da commedia d’ambiente la nascita travagliata del Padrino di Francis Coppola, abbiamo potuto vedere anche nuove produzioni originali, nate appositamente per il mercato dello streaming. Tra queste impossibile non citare 1923 (con Harrison Ford ed Helen Mirren) e Tulsa King (con Sylvester Stallone). Tulsa King, insieme alla serie Beef (Netflix), rappresenta l’incursione di Taylor Sheridan e Terence Winter in uno dei generi di maggior successo degli ultimi anni, la commedia nera. Se però il duetto esprime al meglio il rapporto tra le parti nella serie coreana, in quella americana è Stallone, nei panni di Dwight Marchesi, a prendersi la ribalta, grazie a una interpretazione convincente e mai sopra le righe. Il ruolo del gangster italo-americano è nelle sue corde e l’approdo a questa parte ci è parso il coronamento di una lunga e forse un po’ sottovalutata carriera, una forma di omaggio ai natali italiani della famiglia e al contempo una rivincita perché gli consente di interpretare quel ruolo per cui in passato era stato scartato proprio per nei provini de Il padrino.
L’autore di Tulsa King è anche lo showrunner di 1923, serie prequel dell’universo di Yellowstone che ha avuto anche un’altro spin-off con 1883: Taylor Sheridan si è confermato come uno dei produttori del momento, capace di coniugare un proprio tratto autoriale ben definito con serie in grado di intercettare il favore del grande pubblico.
Restando nei paraggi del genere western, sempre Paramount+ ci ha spiazzato con l’anomalo The English, una serie che deve molto alla splendida interpretazione di Emily Blunt, perfetta nel ruolo di Lady Cornelia Locke, una donna alla ricerca di vendetta nell’America senza legge di fine Ottocento. Certo, non si può tacere il contributo di Chaske Spencer, attore dalla forte presenza scenica, tuttavia nella prima metà del 2023 non poche sceneggiature hanno calcato la mano sulla componente femminile, evidenziando, tra i temi, la resilienza al male e le istanze di redenzione personale. Ad esempio, è difficile levarsi dalla mente l’estenuante strategia di Moon Dong-eun in The Glory (Netflix), una delle serie più intricate degli ultimi anni. Il quadro sociale di sfondo non smorza il focus individualistico del racconto. Il riscatto è una possibilità non preclusa alla protagonista, tuttavia il percorso di affrancamento dal dolore appare uno sforzo solitario, duro, crudele.
Opera autoriale, ma chiaramente di nicchia è invece Copenhagen Cowboy (Netflix), rarefatta e dai colori fluo, di intensità visiva fuori dall’ordinario, ricchissima di spunti interpretativi e di letture simboliche. Del resto dietro la macchina da presa c’è il regista danese Nicholas Winding Refn. La protagonista è la piccola e in apparenza gracile Miu, venduta come un oggetto portafortuna, trattata con un misto di rispetto e di disprezzo, ma che dimostra coraggio e forza non comuni nel contrastare i nemici e nel compiere il suo viaggio personale, il cammino dell’eroe che attraversa tutta la serie, tra simboli e archetipi descritti con un’eleganza formale e una sapidità cromatica non comuni.
The Last Of Us è stato solo l’ultimo dei grandi titoli proposto da HBO nei primi mesi dell’anno. La serie descrive il delicato rapporto di fiducia e di affetto che si instaura tra Joel (Pedro Pascal), un cinquantenne senza aspirazioni, se non quella di restare in vita in un mondo violento e disperato, ed Ellie (Bella Ramsey), una ragazzina pre-adolescente senza legami familiari. I due si muovono nel contesto di un’umanità messa a dura prova da un’epidemia causata da un fungo che controlla la mente e il corpo e che forse proprio Ellie, che è immune al contagio, può aiutare a debellare. Un’opera intensa, dura e violenta, ma capace di tempi dilatati e momenti lirici che la differenziano dalle altre serie horror apocalittiche. Ne è un esempio lo splendido episodio autoconcluso Long, Long Time, con il tentativo di Bill e Frank di far sopravvivere l’amore, l’amicizia, i valori del bello e dell’arte, anche alla peggiore delle barbarie.
Subito dopo l’adattamento del videogioco della Naughty Dog su HBO è approdata la quarta stagione di Succession, probabilmente la migliore delle quattro firmate da Jesse Armstrong, capace di sovvertire i cliché narrativi e sopravvivere alla stessa uscita di scena del suo protagonista. Le infinte candidature agli Emmy, dopo i trionfi della seconda e della terza stagione, ne fanno certamente una delle serie evento di questi anni.
Ma come al solito la società che gravita nell’orbita della Warner ha proposto molte diverse facce: House of Dragon ha segnato il ritorno dell’universo di Game of Thrones, con alterne fortune ma una certa qualità e ricchezza produttiva innegabili; Winning Time ha segnato il grande revival sportivo seguito da The Last Dance, con una commedia sulfurea che porta le impronte di Adam McKay e che ha fatto infuriare molti dei veri protagonisti dell’epopea dei Lakers di Jerry Buss, ma che – vivaddio – non si è accodata alla solita tronfia narrazione apologetica ed edificante degli eroi sportivi, mostrando una realtà molto più complessa e contraddittoria; infine la seconda stagione di Perry Mason ha confermato lo spirito chandleriano, disilluso e crepuscolare dell’eroe creato da Erle Stanley Gardner, in una Los Angeles degli anni ’30, molto lontana dal glamour hollywoodiano.
Tra le produzioni HBO più leggere si è distinta la seconda stagione di The White Lotus. L’ambientazione siciliana, vista dalla nostra prospettiva non “americanocentrica”, ha lasciato a desiderare, quantomeno per aver scoperto il fianco a luoghi comuni e facili generalizzazioni. Complessivamente, però, occorre riconoscere che, in termini di acutezza sociologica e capacità di generare una sana satira sociale, nel panorama attuale poche serie o miniserie sono accostabili alla creatura di Mike White.
Il deserto dei sentimenti, nelle visioni di quest’anno, è quindi intervallato da ben poche oasi. Una è rappresentata da The Makanai, gioiellino del maestro del cinema Kore-eda, un vero e proprio trattato sull’amicizia, virata tutta al femminile. Una storia ambientata in un quartiere di Kyoto fuori dal tempo che, oltre alla delicatezza compositiva e cromatica donata a noi da ogni immagine, rivela allo spettatore piccoli tesori… gastronomici.
Per tornare invece all’argomento coppie, è inevitabile spostarsi sotto l’ombrello di Prime Video con Daisy Jones & The Six. Leggera e ben fatta, la serie esplora i percorsi paralleli di due rockstar destinate ad incontrarsi e a formare un gruppo leggendario benché… inesistente. Usare le regole del genere documentario per stravolgerne gli obiettivi può essere divertente. Imbarcarsi nell’esperimento di un remake è invece un grande azzardo. La puntata di Rachel Weisz sul tavolo da gioco di Dead Ringers (sempre sulla piattaforma Prime), ovvero il nuovo adattamento di Inseparabili di David Cronenberg, è stata vincente. Donna sdoppiata, donna riflessa nella sua copia conforme e contraria, la protagonista ci trascina nei meandri della tecnologia applicata al corpo, versante maternità, mentre il mondo esterno con i suoi inquietanti protagonisti, speculatori finanziari, biohacker e miliardari senza scrupoli, risulta perfino più angosciante di quanto il regista canadese avesse pronosticato trent’anni fa.
Disney+ ha confermato il suo trend positivo con diversi titoli interessanti, tra cui ci piace ricordare in particolare Fleishman a pezzi, una commedia agrodolce sulla fine di un matrimonio, sull’elaborazione di un trauma e la capacità di resistere agli urti della vita, che trova nella scrittura la sua migliore qualità (a parte Claire Danes che speriamo abbia già prenotato il biglietto aereo per andare a ritirare il suo Emmy).
Di tutto l’universo Star Wars/Marvel l’unica serie veramente innovativa della stagione è probabilmente Andor, con il ritorno di Tony Gilroy al comando di due stagione lunghe (12 episodi) che raccontano la storia dell’avventuriero che sarà il protagonista di Rogue One. Una serie politica, con spie e tradimenti, missioni impossibili e la costruzione sotterranea della Resistenza all’Impero. Una serie che probabilmente anche Lucas avrà apprezzato, ritornando decisamente ai temi della trilogia prequel.
Di tutt’altro tono The Bear (sempre visibile su Disney+) e Ted Lasso (Apple TV+). Con il finale della seconda stagione The Bear ha alzato l’asticella, dimostrandosi un prodotto di grande qualità, mentre Ted Lasso, interpretato da un istrionico Jason Sudeikis, ha confermato le qualità apprezzate in passato e che lo hanno reso uno dei prodotti di punta della produzione Apple.
Molto leggera e decisamente teen l’incursione di Tim Burton nella serialità con Mercoledì (Netflix), di cui ha curato i primi episodi: ad uscirne meglio è probabilmente Jenna Ortega, la sua protagonista.
Sempre a proposito dei traguardi della piattaforma Apple, è opportuno ricordare la conclusione di una serie importante. Servant, frutto del talento, purtroppo inconstante, di M. Night Shyamalan, termina con l’uscita di scena della terribile bambinaia Leanne. L’horror psicologico ideato del regista indo-statunistense, sostenuto da un cast affiatato come pochi, nei momenti migliori è stato emotivamente molto coinvolgente.
Ricorderemo a lungo gli interni della bella dimora della famiglia Turner… Tuttavia, la paura, per scatenarsi, non ha bisogno di ombre sinistre o di presenze di derivazione sovrannaturale. I serial killer sono materiale sufficiente per i grandi scrittori. Dahmer di Ryan Murphy, distribuito da Netflix a fine 2022, ha fatto il botto nonostante le polemiche. Uno straordinario Evan Peters ha vinto il Golden Globe come migliore attore. La serie prelude a una nuova antologia di mostri in carne e ossa.
Anche in The Diplomat (Netflix), la sceneggiatura è determinante nel raccontare in modo coinvolgente il matrimonio tra due funzionari di carriera americani e i retroscena della politica internazionale. Una coppia, quella composta da Kate e Hal Wyler, molto diversa dalla celebre famiglia Underwood, come del resto lo è l’immagine della politica che sta alla base di questo show scritto da Debora Cahn (tra gli altri, West Wing). Pur tra lotte di potere senza esclusione di colpi, narcisismo e una buona dose di opportunismo, qui la politica riesce comunque a trovare una sua prospettiva, un respiro che va oltre l’interesse del singolo.
Keri Russell, l’attrice che interpreta Kate, ci riporta con la memoria, e il cuore, a The Americans. Chi avesse nutrito dei dubbi sulla residua vena creativa di Joe Weisberg e Joel Fields, gli showrunner dell’indimenticabile serie sulla coppia di spie sovietiche in territorio americano, ha ricevuto un’adeguata risposta da The Patient (Disney+). Ancora un serial killer in azione, anche se qui, a differenza di Dahmer, è soprattutto l’impotenza della parola ad occupare, quasi per intero, lo spazio narrativo.
Come dicevamo la stagione 2023 ha sancito a tutti gli effetti l’ingresso di Paramount + tra i servizi in streaming più interessanti del mercato, confermato l’eccellenza delle produzioni Netflix (ci cui si continua ad apprezzare l’eclettismo e la capacità di dialogare al meglio con le istanze dei mercati orientali) ed HBO (che peraltro attraversa una fase meno vulcanica ed espressiva della rivale) e in generale ha presentato agli appassionati un mercato tutt’altro che saturo, anche se ricchissimo di prodotti di qualità. Le serie del 2023 non hanno al loro interno titoli capaci di coagulare come in passato l’interesse del grande pubblico e della critica, ma nella maggioranza delle produzioni confermano valori tecnici e artistici di livello medio-alto. Nelle nostre valutazioni ci sono state poche eccellenze, ma un ampio bouquet di serie meritevoli di visione, in molti caso tutt’altro che banali nei contenuti e nelle forme del racconto.
Il 2023 verrà ricordato anche come l’anno in cui gli sceneggiatori hanno incrociato le braccia. La WGA (Writers Guild of America) ha infatti indetto a partire dal 2 maggio uno sciopero, dopo che le trattative sul rinnovo contrattuale con l’AMPTP (Alliance of Motion Picture and Television Producers), che rappresenta gli studi più importanti, non hanno raggiunto alcun risultato. Naturalmente le conseguenze si avvertiranno soprattutto nei prossimi mesi: ad esempio le riprese della seconda stagione di 1923 si sono interrotte. Sono numerose le produzioni che stanno avendo ritardi in questa estate “calda”: The Handmaid’s Tale (Hulu), arrivata alla sesta e ultima stagione, si è pure interrotta all’inizio dello sciopero. La prima vittima accertata è stata invece Metropolis (Apple TV+), la serie di Sam Esmail, basata sull’omonimo capolavoro del 1927 di Fritz Lang, cancellata a causa dell’aumento dei costi e dell’incerta tempistica di realizzazione.
La serialità quindi non è solo streaming. È un’industria, non isolata dal contesto di riferimento e con gli occhi aperti sul tempo presente. Un esempio? Litvinenko, prodotta dalla britannica ITV e approdata in Italia su Sky/Now, se astratta dalle vicende geopolitiche attuali avrebbe certamente un peso specifico diverso. Basata sulla reale e tragica fine dell’agente segreto dell’FSB, avvelenato a Londra per ordine di Putin, la serie di George Kay ha tutte le caratteristiche del prodotto militante, pur aderendo, nella rigorosa ricostruzione dei fatti, alle regole di un documentarismo asettico e inflessibile.
Non meno interessante la quarta stagione di Babylon Berlin (Sky) in cui la presenza dell’ombra del nazismo si fa sempre più ingombrante, segnando le avventure dell’ispettore Rath.
Se invece facciamo sosta in Italia, non si può non citare Esterno notte di Marco Bellocchio (Raiplay), un’opera che si pone sul crocevia tra il grande cinema d’autore e la serialità più adulta e consapevole: un’operazione rara per la tv italiana, in cui il rapimento Moro ritorna nelle parole e nei volti dei personaggi di allora, con gli episodi centrali dedicati a Cossiga, al Papa, alla moglie dello statista, ad uno dei carcerieri, con una scelta anche narrativamente brillante. Il resto ce lo mettono gli interpreti, da Fabrizio Gifuni a Fausto Russo Alesi, da Toni Servillo a Margherita Buy.
Sempre per restare ai temi “caldi”, si riponevano molte speranze in Extrapolations (Apple Tv+). Il tentativo di sensibilizzare le coscienze ed esortare all’impegno collettivo per scongiurare il pericolo dell’estinzione umana, con la pretesa un po’ barocca di colpire lo spettatore esibendo un cast ricchissimo e inarrivabile, si è risolto in un clamoroso flop. Una plastica dimostrazione di quanto risulti difficile affrontare questioni spinosissime come il riscaldamento globale senza scadere nella banalità, nel moralismo o nel manierismo. Per rappresentare a dovere le trasformazioni globali le serie devono forse adottare una nuova grammatica, di segni, di parole, di visioni, all’altezza della realtà? È l’eco di un problema che ci riguarda tutti?
Più interessante nell’orbita Apple Tv+ l’adattamento dei romanzi di Hugh Howey, Silo, con Rebecca Ferguson in un mondo post-apocalittico, in cui quello che resta della nostra umanità è costretta a vivere in delle piccole città scavate sottoterra. Ma è davvero impossibile sopravvivere all’esterno? E chi guida l’ordine sociale che regge il silo?
A proposito di linguaggi almeno in parte innovativi, soprattutto nel raccontare i rapporti interpersonali, risalta il successo di Beef (Netflix), serie coprodotta dall’emergente casa di produzione e distribuzione A24. Ancora più in alto, almeno su un piano linguistico, collochiamo The Bear (Disney+). Due serie, queste ultime, che si raccolgono attorno a un comune pattern di sentimenti e stati d’animo, quali sconforto, paura, solitudine e desiderio di rinascita. Entrambe riflettono particolari ecosistemi sociali, quasi delle bolle o dei microcosmi, rispettivamente la San Fernando Valley e un quartiere gentrificato di Chicago. L’una e l’altra puntano, con decisione, sul conforto strutturale della musica. Beef e The Bear, pur nelle differenze, sono prodotti vincenti in ragione di un’originalità estetica che consente loro di non farsi risucchiare nel già visto o nel già sentito.
In tutto questo ci sono ancora ad attenderci i mesi autunnali che potrebbero confermare o stravolgere tutto quanto abbiamo detto e scritto. Non resta che mettersi comodi e prepararsi alle prossime visioni.
