“Sei stato tu a portarmi in giro a raccogliere carcasse di animali”, dice Jeffrey Dahmer al padre Lionel. È l’anno 1991 e il trentunenne Dahmer è stato appena arrestato. Ben presto i contorni dei suoi crimini, diciassette omicidi, diventano chiari. Non è semplice rendere l’idea delle brutalità perpetrate da uno dei più efferati serial killer della storia d’America nei confronti delle sue vittime. Jeff, applicando le tecniche imparate in gioventù e sperimentate, appunto, sulle carcasse di puzzole e procioni, smembrò i corpi dei suoi amanti (reali o vissuti come tali nella sua immaginazione), ne dissezionò le carni e, almeno in parte… li cucinò.
Torniamo al confronto tra Jeffrey Dahmer e il padre, una dolorosa epifania che ha luogo in una stanza del Police Department di Milwaukee. Lionel, disperato e incredulo per ciò che ha appena scoperto, respinge il messaggio contenuto nelle parole del figlio. Vi è una responsabilità in qualche modo addossabile a lui? Di certo, Lionel pensa di essere stato un buon genitore e Jeffrey, in effetti, conferma. Cos’è mancato, allora? In cosa ha fallito? Lionel, più tardi, confesserà a Shari, la sua seconda moglie, di aver coltivato idee assurde da ragazzo, progetti perversi, comunque mai realizzati. Il fattore genetico può spiegare l’accaduto? Nel DNA dei Dahmer c’era una promessa di crudeltà destinata ad esplodere nel comportamento di Jeff?
Nei dieci episodi della serie Netflix, firmata dallo showrunner Ryan Murphy, la storia di Dahmer è declinata tanto sul versante privato quanto su quello pubblico. Il pendolo temporale oscilla tra l’infanzia e l’adolescenza del celebre killer. Si è detto della genetica, del presunto disturbo ossessivo compulsivo affiorante nello stesso Lionel e poi, chissà, ereditato dal figlio, ma le stranezze di Jeff sono ricondotte anche all’eccesso di medicine assunte dalla moglie Joyce, quando era incinta. Vediamo Joyce, malata di nervi, una condizione acuita dal parto e sfociata in depressione, condurre una vita in stato catatonico, all’ombra di un marito fedifrago, finché decide di andare via.
Ciò che colpisce è l’incapacità dei genitori di comprendere, nell’accezione squisitamente etimologica del verbo di derivazione latina, di prendersi cura, di cogliere il filo dell’intricata matassa, di esercitare l’intelligenza del cuore, di entrare in sintonia con un figlio diverso.“So di essere strano”, afferma Jeff a sé stesso e agli altri. Lionel e Joyce staccano un assegno in bianco al fatalismo. Perché un mostro si nutre di vuoto, di silenzi, di convinzioni assurde, un mostro nasce nel deserto delle relazioni umane. E quando l’assenza domina il campo, può accadere di tutto.
L’abuso di alcol, la rassegnazione davanti ai propri fallimenti (“alcune persone non possono avere dei sogni”), la chiusura emotiva verso il mondo esterno, l’attrazione per Satana e gli esorcismi, la paura costante dell’abbandono, il desiderio di realizzare immagini prima di uccidere… in Dahmer è passata in rassegna la fenomenologia dell’assassino, presumendo un fondo di orrore insondabile. La serie ci presenta il background del mostro, le carenze, i vizi, le distorsioni, evitando di emettere una sentenza definitiva sulle cause generative del male. Se il padre non gli avesse trasmesso la passione per gli animali morti, se la madre fosse rimasta con lui anziché mollare la famiglia per cercare la libertà e… gli UFO, se la nonna avesse evitato le continue allusioni all’assenza di donne nella sua vita, per non parlare di quell’accenno, ingenuo o forse accondiscendente, alla sagra con il tendone della birra… Se la prima vittima, un malcapitato ragazzo raccattato per strada, si fosse concessa a lui. Forse. Chissà. Oppure no. Jeff è un punto cieco.
L’immagine della distruzione del cervello, unico organo preservato del Jeff Dahmer cadavere (fu assassinato in carcere nel 1994 da un fanatico “soldato di Dio”), e richiesto dalla Fresno State University per motivi di studio, da leggersi in parallelo con la sequenza dell’abbattimento della fatiscente palazzina dei crimini, sancisce lo scacco della ragione di fronte all’imponderabile. Non sapremo mai, non si può sapere.
Ryan Murphy esperto di prodotti antologici (American Crime Story, American Horror Story/Stories) crea qui, in un certo senso, una nuova antologia, una raccolta sui generis di deviazioni assortite, umane, politiche, sociali, attorno a un fattore catalizzatore, un buco nero, un rappresentante del male assoluto. Si diceva del versante pubblico della vicenda. La vicina di casa dell’assassino telefona ripetutamente alla polizia per chiedere, invano, di intervenire. L’immagine della grata intercomunicante è la più iconica dell’intera serie. Odori nauseabondi e urla inquietanti non sono elementi sufficienti per convincere l’operatore del centralino dell’urgenza della segnalazione. Quando, finalmente, due agenti di pattuglia (in seguito addirittura premiati!) si recano al 924 di North 25th Street, si comportano da incompetenti. Anziché tutelare l’incolumità di un minore in fuga dal killer, lo riportano tra le sue braccia. Perché? La spiegazione è semplice, perfino didascalica. La vicina di casa è nera, Konerak è un quattordicenne figlio di immigrati laotiani, il caseggiato è abitato da poveri, afroamericani, disadattati, mondo non degno di protezione e giustizia. E Jeff è un gay che uccide altri diversi, altri come lui. Che i pervertiti se la vedano tra loro!
I poliziotti si sentono giustificati dal contesto, un’inversione davvero paradossale. Un ragazzo incosciente, in evidente stato di difficoltà, è solo un debosciato non meritevole di aiuto. Le parole del bianco Dahmer (“è il mio fidanzato”) sono più credibili di molte testimonianze allarmate. L’evidenza cede al pregiudizio.
In questa antologia di orrori americani, con Jeffrey Dahmer come baricentro, un posto speciale tocca a una delle ultime vittime, Tony Hughes, assassinato il 24 maggio 1991. Gli autori gli dedicano un intero episodio. Tony era sordomuto. E tra tutte le vittime rappresentate, Tony, ragazzo che coltiva il sogno di incontrare il grande amore, è l’unico a costruire qualcosa con Jeff. Un legame effimero e impossibile, che sconcerta, forse il passaggio più scandaloso di Dahmer. Il mostro, sebbene per poco, pare avere un cuore. Nei bigliettini è impressa una verità che ci disturba. A quale conclusione ci conduconi simili epifanie? Gli istanti di vicinanza tra i due sono intollerabili, allo stesso modo della visione di un petto squarciato o di una testa imbalsamata. Poi, tutto crolla. È un meccanismo a spirale, ben esemplificato dallo strano gioco dell’oca inventato dal killer. Terrorizzato dall’idea di perdere anche lui (Please don’t go, hit di KC & The Sunshine Band, è la sua canzone preferita), Jeff lo massacra a colpi di martello, mettendo in scena il solito macabro rituale che culmina nell’atto di cibarsi della carne della preda.
Jeff, massacratore di deboli. Jeff, assassino di inermi. Eppure, anche uomo dai riflessi lenti, in apparenza molle, facile da sottomettere. Jeff, espulso dall’università per scarso rendimento e dall’esercito per alcolismo. Jeff assunto e licenziato a ripetizione (perfino da una macelleria, dove gli viene richiesto di vestire in maniera impeccabile mentre affetta i salami). Jeff, che durante la prima esperienza in carcere non è preso in cura, non è assistito, non vede mai uno psicologo. “Dipendevo unicamente da me stesso”. Nel suo universo privato, certe azioni non sono né buone né cattive.
Tragicamente consapevole della propria impotenza, devastato da esperienze di solitudine e di isolamento sociale, frustrato dalla constatazione di non essere in grado di trattenere nessuno, Jeff tenta di zombificare le vittime per tenersele accanto, neutralizzate, disanimate, disponibili al pari di manichini o bambole gonfiabili. Secondo Eugene Thacker, filosofo della New School di New York, lo zombie, quantomeno da Romero e Fulci in avanti, rappresenterebbe la figura esemplare del morto vivente. “La sua modalità allegorica è mutata nel tempo, sebbene sia spesso collegata al sollevamento delle classi inferiori” (Tra le ceneri di questo pianeta, Nero Editions, 2018). Qui, lo zombie e la classe inferiore variamente declinata, il nero, l’immigrato, lo spiantato, finiscono per coincidere, nella realtà dei fatti accaduti. Jeff, involontariamente, ci indica chi sono i morti viventi d’America. Difficile immaginare un gesto performativo più intimamente politico.
Certo, non si può dimenticare che pur di crimini atroci si tratta. Dahmer è una delle serie più criticate di sempre. I familiari delle vittime hanno denunciato l’indelicatezza degli autori, lamentandosi di non essere mai stati consultati da Netflix (non ricevendo nemmeno un centesimo). È un’operazione eticamente accettabile, quella di ricostruire delitti aberranti che hanno sconvolto l’esistenza di decine di persone, parenti, amici, vicini di casa? Ryan Murphy, che si avvale di Jennifer Lynch e soprattutto di Gregg Araki alla regia, oltre ad aver coinvolto Nick Cave e Warren Ellis per le musiche originali, ha forse glorificato il killer?
Sono i media ad averlo glorificato. Jeff, a prescindere dalla serie di Murphy, dai documentari e dai film a lui dedicati in precedenza, dopo l’arresto, quindi ancora in vita, divenne subito una celebrità. Il nono episodio racconta un pezzo di storia importante di questa favola nera. I fan gli scrivevano in carcere, chiedendogli autografi. Il suo volto fu associato a un costume di Halloween, le sue azioni trasfigurate in un popolare fumetto (lui stesso era un avido di lettore di fumetti horror). Il palazzo dei massacri si trasformò in una meta di pellegrinaggi. Jeff, in altri termini, venne assimilato alla cultura pop. Questa non è una serie solo su Jeffrey Dahmer, il mostro di Milwaukee, bensì (soprattutto?) su Jeffrey Dahmer The Boogeyman, “il mostro di cui la gente normale ha bisogno”, il divoratore di uomini digerito dal sistema. Jeff ha compiuto violenze inenarrabili perché il mondo, pur potendo, non gli ha resistito. È lui stesso a riconoscerlo: “Io non sono pazzo, era solo facile”. ‘Facile’ è il termine chiave di Dahmer. La banalità del male sta nella meccanica naturalezza delle sue imprese omicide.
Il cannibale, sembra voler suggerire Ryan Murphy, è lo specchio di una civiltà in fase di regresso. Il cranio trapanato, il midollo succhiato, l’osso ripulito dagli ultimi rimasugli di carne, le dita che affondano nell’organo lucido appena estratto: le operazioni di Jeff disgustano perché segnano l’oltrepassamento di un confine etico e indicano il collasso di un’intera impalcatura culturale, se con cultura intendiamo un sistema di simboli, riti e linguaggi usati in sostituzione dell’assassinio (vedi lo scambio della vittima umana con un feticcio negli antichi schemi sacrificali). “Posso ascoltare il tuo cuore? Voglio ascoltarlo perché lo mangerò”.
Ryan Murphy non criminalizza il nemico e non si piega al moralismo. Se il perdono è una forma suprema di amore, allora quello comunque concesso da Lionel a un figlio reo di crimini abominevoli ha qualcosa di scandaloso. Nella decisione di Jeff di farsi battezzare e nel sapere, dal cappellano del carcere, di poter ricevere la grazia al pari di chiunque altro, troviamo qualcosa di difficile da accettare: la possibilità di una redenzione.
Dahmer deve molto all’interpretazione di Evan Peters (premio Emmy nel 2021 per Omicidio a Easttown). Peters è perfetto nel riprodurre le movenze, le esitazioni, l’aggressività latente, le improvvise furie e, su tutto, l’espressione ineffabile perennemente stampata sul volto di Jeff. “Non ho agito per odio”. E allora, in nome di cosa? Non deve essere certo facile intepretare un personaggio così assente, imperscrutabile, deprivato di emozioni, empatia e sentimento. Ottimo anche Richard Jenkins (premio Emmy nel 2015 per Olive Kitteridge) nella parte del padre Lionel. “Non avevo capito che fossi così malato”. Jenkins ci restituisce, così, il ritratto di un americano medio incapace di intuire la tragedia in corso, un uomo refrattario alla verità. Non c’è modo di comunicare, per lui, per noi, con la mente del cannibale.
Titolo originale: Dahmer – Monster: The Jeffrey Dahmer Story
Numero di episodi: 10
Durata: 50 – 60 minuti l’uno
Distribuzione: Netflix
Uscita: 21 settembre 2022
Genere: True Crime
Consigliato a chi: non ordina mai panini con la carne, crede che i personaggi cattivi siano scritti meglio di quelli buoni.
Sconsigliato a chi: è ossessionato dai cattivi odori, rimpiange i tempi in cui si facevano scherzi telefonici e si viaggiava in autostop.
-
Imperdibile, per uno sguardo con un taglio differente sulla vicenda, la parallela docuserie Netflix Il caso Dahmer – Conversazioni con un killer.
-
Qual è la giusta pena per chi elimina accidentalmente un serial killer? Se lo chiede lo scrittore e penalista Ferdinand von Schirach in I Colpevoli, Longanesi, 2013.
-
Una storia narrata dalla vittima, un libro cult: Alice Sebold, Amabili resti, Edizioni e/o, 2002.
Un oggetto che vorresti tenere chiuso: la scatola dei ricordi.
Un personaggio che non ti aspettavi: Jesse Jackson.