In apertura del primo episodio di The Bear Carmen “Carmy” Berzatto apre la gabbia. L’orso, che dà il titolo alla serie, è una presenza onirica ricorrente, un incubo delle notti insonni di Carmy, una chiara evidenza simbolica. L’orso è un ostacolo nella comprensione dell’esistenza, quando il dolore per la morte del fratello esplode nella sua assurdità. Carmy deve affrontarlo.
Carmy, vincitore del prestigioso James Beard Award, ha da poco ereditato la paninoteca italiana che Michael, il fratello tossicodipendente morto suicida e soprannominato, appunto, The Beary (l’orsetto), conduceva nel North Side di Chicago. Il giovane chef è catapultato in un mondo sconosciuto. Original Beef of Chicagoland è una realtà molto diversa dalla sua precedente occupazione, un ristorante di fascia alta di New York City. Nulla è semplice e tutto è da reinventare. La qualità dei panini appare lontana dall’essere memorabile. Le pareti scrostate reclamano una rapida imbiancatura. La clientela, quantomeno pittoresca (al termine del primo episodio la paninoteca è assaltata da una decina di cosplayer), non garantisce profitti significativi.
Original Beef è un piccolo grande caos. Il lavoro, definito dai suoi intimi rapporti gerarchici, inteso come fascio di relazioni e groviglio di intersezioni umane, è al centro di The Bear. Lo staff, almeno all’inizio indisciplinato, quasi pervaso da una strana forza primitiva, è l’epicentro tellurico della serie. Lo spettatore ne è toccato in senso epidermico. L’atmosfera, dentro e fuori dal locale, è elettrica, inafferrabile. I rapporti tra Carmy e i nuovi colleghi sono complicati, soprattutto con Richard “Richie” Jerimovich, il miglior amico di Michael, che fatica ad accettare il cambiamento. Un cambiamento però inevitabile, se l’obiettivo, nel secolo della finanza immateriale, è sopravvivere fisicamente alla distruzione.
The Bear è ritmo allo stato puro. Il montaggio è prossimo alla musica, verrebbe da pensare in primis al jazz, un genere di cui Chicago fu l’indiscussa patria nei Roaring Twenties, i ruggenti anni Venti del Novecento, fino a certe sperimentazioni minimaliste, di rottura, destrutturanti, sorte nella città ventosa a cavallo tra un secolo e il successivo, si pensi al post-rock di Jim O’Rourke e dei Tortoise, nativi proprio di Chicago. Anche se poi, intelligentemente, la sovrastruttura musicale di The Bear, nel voler fornire un contrappunto, un’eco alle derive emotive dei personaggi, rimanda a ben altra tradizione, al rock più solido di R.E.M., Wilco, Pearl Jam, Counting Crows, Genesis, David Byrne, John Mellencamp, Radiohead… L’impasto sonoro lievita con i tempi giusti, regalando al finale di ogni episodio un tocco sapido, malinconico, aspro: il sale della vita.
La serie, pur essendo ambientata in una cucina, non vive solo, e nemmeno principalmente, di ricette. In The Bear si affrontano di petto questioni insolite, dagli oneri per il personale al pagamento delle tasse, dall’igiene delle latrine alla pulizia dei pavimenti, dalle ispezioni sanitarie (il locale si merita una sanzione a causa di un pacchetto di sigarette dimenticato vicino ai fornelli), agli adempimenti burocratici, questioni in genere sottovalutate nelle rappresentazioni della cultura e degli spazi del cibo, cinematografiche o seriali che siano.
I soldi sono il fulcro della storia e lo showrunner di The Bear, Christopher Storer, ha ammesso di aver tratto ispirazione dalle sue stesse esperienze di scrittore e produttore. “Per una qualche ragione, ho scoperto che le persone coinvolte nello sviluppo dei programmi sono reticenti nel parlare di soldi, come se si trattasse di un fatto secondario”. Tutti gli aspetti del lavoro sono importanti e i dettagli, che dettagli non sono, fanno la differenza. “Molti chef mi hanno rivelato… ‘oh si, una sera poco prima di aprire il bagno è esploso. O il lavello non funzionava’. La preparazione dei piatti? È una delle tante abilità, tra centinaia, necessarie nelle cucine”.
Il realismo febbrile di The Bear può sconcertare. La confusione è folle, inebriante, disturbante anche per lo spettatore. Siamo agli antipodi della formattazione in stile masterchef: nessuna patina, nessun artificio, nessun trofeo. La poesia è nel sudore di ogni giorno e le pietanze impiattate, il punto di arrivo di una catena di montaggio mai perfettamente oliata, sono il premio all’impegno fisico e mentale di chi crede nella professione. Carmy è un genio scivolato nei gironi più bassi del mestiere. Il caos primordiale lo inghiotte. Vediamo il giovane chef sgomitare, letteralmente, tra gli angusti passaggi della cucina, simili a trincee o retrovie di un fronte. Vediamo i sous chef, i secondi sul campo di battaglia, inveire, urlarsi parole addosso, ancorarsi alla comanda per non naufragare contro gli scogli. The Bear è agonismo, lotta, frizione. Le inquadrature sono strette, inseguono i volti, individuano braccia, mani, bocche, occhi, ferite, tagli. Finchè, in mezzo al marasma, dal nulla compare Sidney.
Sidney Adamu porta con sé, oltre all’ambizione, un’idea di organizzazione, quasi un azzardo filosofico nel disordine di The Beef. La ragazza proviene dal C.I.A., che non è la nota Agenzia (“non sono una spia”, come lei stessa precisa), bensì the Culinary Institute of America, una delle più importanti accademie di cucina al mondo. Sidney si accorge che, risparmiando su alcune spese, Carmy potrebbe coprire senza difficoltà gli stipendi dei dipendenti. Sidney è il classico elemento non integrato, assunto però con lo scopo di razionalizzare il lavoro in un progetto finalmente coordinato, efficiente e funzionale. È lei ad avere l’idea di istituire la “brigata di cucina”, sul modello introdotto a fine Ottocento da Auguste Escoffier. Secondo uno stile via via più raffinato, la preparazione e la presentazione dei piatti migliora, la cura si impone visivamente, nelle forme e nei colori, perché il perfezionamento di sé e dell’ambiente è un aspetto significativo della serie.
Ingegnosa e creativa, pragmatica e reattiva per necessità (la metafora militare è sempre valida), Sidney non esita a somministrare a un ignoto avventore un piatto sperimentale di sua invenzione, precisamente risotto con brasato alla cola, e non ha paura di affrontare i pericoli all’angolo della strada, vedi alla voce spaccio di droga, risolvendo le contese a suon di panini. Sidney incarna il valore del riscatto, uno dei temi maggiormente in evidenza in The Bear.
La serie è ambientata nel 2022 e cita espressamente il COVID quale spartiacque tra un prima e un dopo. Non ci sono buoni o cattivi. “Sei un fallito e sai di esserlo”, urla Sidney a Richie, poco prima di accoltellarlo, di striscio, a un gluteo. La divisione separa ma non lacera, all’astio subentra il rispetto. La riconciliazione, che si concretizza nel rito quotidiano del pranzo comune, si impone come ultima esigenza. Il lavoro è un esercizio di resistenza, un tentativo di sopravvivere al collasso degli eventi.
The Bear si inserisce nella storia di Chicago e riflette il divenire, l’attualità dei suoi quartieri. È una serie situata in un luogo vero, ora e qui, nel modo in cui la mitica The Wire era in Baltimora e non altrove. La sequenza iniziale del settimo episodio, con l’incipit musicale di Sufjan Stevens (“I fell in love again / all things go / Drove to Chicago / All things know”), è una dichiarazione d’amore alla città, madre e matrigna, una dea postmoderna cinta della sua imperturbabile corazza di vetro e acciaio. I riferimenti, dalla steakhouse di proprietà di Michael Jordan alla statua di Cerere, posizionata sul tetto del Board of Trade, delimitano un perimetro geografico e culturale.
Lo sport è un linguaggio comune e, di più, lo scrigno di un immaginario condiviso. A proposito di riscatto, i Chicago Cubs, squadra di baseball della Major League, acerrima rivale dei cugini, i White Sox, grazie alla clamorosa vittoria nelle World Series del 2016 (non vincevano il titolo dal 1908!), da esempio di insuccesso sono diventati improvvisamente un modello positivo di riscossa. E l’orso, l’animale che nella finanza identifica la tendenza negativa dei mercati, da qualche anno è la loro mascotte ufficiale.
Cadere e rialzarsi, cadere e ancora rialzarsi… “L’ecosistema è delicato”, dice Richie a chi evoca trasformazioni radicali per restare a galla. I locali attorno a The Beef chiudono e, se riaprono, sono mutati nella loro missione profonda, preda della gentrificazione e delle mode. Il locale della famiglia Berzatto sta su questa linea di frattura. La sala ospita due videogiochi a scorrimento orizzontale, Ballbreaker, un residuo bellico degli anni Ottanta, una sorta di versione politically uncorrect di Mortal Kombat (“ritirato per violenza irresponsabile” secondo le parole di Neil, il factotum del quartiere). Un passato analogico e ingenuo. Alle feste per bambini, Carmy dispensa caraffe di Ecto Cooler, il beverone dei Ghostbusters. Eppure, il presente bussa alla porta, con i debiti ereditati da Mikey e reclamati da Cicero, lo zio spezzagambe. Il tempo slitta in avanti e diventa affanno, paura, ansietà. L’orologio a muro batte i minuti, un conto alla rovescia feroce, implacabile.
Sidney e Richie, soprannominato dalla figlia Bad News, rappresentano due modi alternativi di intendere l’essenza di The Beef, conservazione contro innovazione, rilassatezza (fatalista) contro studio e disciplina. Richie è un duro dal cuore fragile. Scopriamo che il cugino Mikey, il fratello di Carmy morto suicida, abusava di oppiodi, la moderna peste d’America. Anche Richie fa uso di sostanze, xanax, e vende cocaina nel vicoletto, un’entrata extra per sé e, se necessario (e lo è) per la comunità vivente di The Beef. A lungo andare, la maschera ruvida di Richie si sgretola. È un essere ferito dal lutto, vinto dalle circostanze e dalla solitudine. Durante una festa di addio al celibato, ospitata dal locale perché non se ne può fare a meno, rischia di ammazzare un uomo.
Carmy, Sidney e Richie sono personaggi degni del grande romanzo americano contemporaneo. I loro colleghi compongono un melting pot sociale verosimile, un quadro umano sincero: tra gli altri, Ebrahim, il rifugiato somalo fissato con la cronaca della battaglia di Mogadiscio, Tina, la veterana dei fornelli che fa finta di non conoscere l’inglese e Marcus, il gigante buono con il sogno del pane fragrante e della ciambella perfetta. Marcus incarna l’ambizione semplice, il sogno americano ancora vivo. Non è tanto il sapore dei dolci ad entusiasmarlo, quanto i colori. Per restare al passo, Marcus si è attrezzato una postazione in cucina. Dorme lì. Marcus, forse, non ha nemmeno una casa sua dove tornare. La notte di Chicago, rappresentata in interni di solitudine (lo chef Carmy, nella sua stanza, si accontenta di junk food) , è lunga, insonne, un lento preludio dell’alba.
Il cast di The Bear: Carmy è interpretato da Jeremy Allen White (Shameless), Richie da Ebon Moss-Bachrach (The Dropout, Girls). Significativamente, alcuni attori e attrici gravitano attorno alla sfera comedy, una sfumatura dalla quale forse deriva quel tocco di strampalata malinconia che contraddistingue The Bear. La comica Ayo Edebiri interpreta Sidney, Lionel Boyce (Jackass Forever) è Marcus. L’imitatrice Abby Elliott è Nathalie “Sugar” Berzatto, sorella di Michael e Carmy. Il rapporto tra Sugar e Carmy, l’autocoscienza di una famiglia lesionata negli affetti e nelle certezze, cresce in consapevolezza, episodio dopo episodio.
“Come si chiama quella sensazione, la paura che succeda qualcosa di bello, per paura che accada qualcosa di brutto?” chiede Carmy a Richie. “Non so, la vita?” risponde il suo falso cugino. Niente di più vero, per una serie che sfiora la bellezza e trova l’autenticità.
Titolo originale: The Bear
Numero di episodi: 8
Durata: tra i 20 e i 45 minuti l’uno
Distribuzione: Disney+
Uscita: 5 ottobre 2022
Genere: Drama
Consigliato a chi: non sopporta il ketchup sugli hot-dog; sa che è impossibile lavorare in un ristorante e non essere del tutto matto.
Sconsigliato a chi: preferisce dare due morsi alle ciambelle anziché uno; si è addormentato all’improvviso su un prato senza sapere perché.
Visioni e letture parallele:
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Un film che presenta molte assonanze con The Bear: Soul Kitchen di Fatih Akin, 2009.
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Due libri su Windy City: David Mamet, Chicago, Ponte alle Grazie, 2021 (romanzo epocale) e, per chi ama la fotografia, Luigi Bortoluzzi, This is Chicago, Officina Libraria, 2018.
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Un libro dedicato all’arcangelo dei canestri: Roland Lazenby, Michael Jordan, la vita, 66thand2nd Edizioni, 2015.
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Il testamento di un grande chef: Anthony Bourdain, Il viaggio di un cuoco, Feltrinelli, 2015.
Un oggetto: il barattolo di San Marzano.
Un elemento: il fuoco.