Copenhagen Cowboy: un’esperienza sensoriale di grande fascino estetico

Copenhagen Cowboy **** 

Miu appare fragile, gracile, pronta a spezzarsi al minimo colpo di vento. E’ stata venduta da bambina e adesso, a 19 anni, continua a essere trattata come un oggetto. Un oggetto portafortuna, una forma di talismano, una maga capace di soddisfare i desideri delle persone, soprattutto quelli apparentemente irrealizzabili. O forse no. Forse Miu non porta fortuna, ma sfortuna e va quindi evitata, allontanata, reclusa. Venduta, per liberarsene. Sospesa tra queste dimensioni, in un caso come nell’altro tenuta a distanza e guardata con un misto di rispetto e disprezzo, Miu è l’eroina di questa nuova serie, sospesa tra reale e fantastico, ideata dal regista danese Nicolas Winding Refn e ambientata tra criminali, alieni e mostri.

Copenaghen Cowboy è una favola noir, una serie metafisica a metà tra un film di Sergio Leone e uno di Jodorowsky, dei quali NWR è da sempre ammiratore. In una serialità caratterizzata dal mix di generi, Refn realizza un mesh up del tutto originale, consegnando allo spettatore un’opera difficile da catalogare, a tratti respingente, con personaggi che più che persone rappresentano archetipi (il guerriero, la maga, il cacciatore, il vampiro, la madre). E’ un elemento da tenere presente per evitare di scivolare in giudizi affrettati sull’approfondimento dei personaggi: non c’è intento descrittivo che non sia finalizzato alla rappresentazione di caratteri dalla forte connotazione archetipica. E’ del resto un vero e proprio viaggio dell’eroe che siamo chiamati a condividere, un viaggio attraverso molteplici prove, come la limitazione della libertà di movimento, la scomparsa del compagno amato, eventi miracolosi, la necessità di ritornare sui propri passi per completare la missione.

E’ il senso di un destino a guidare i passi di Miu, lo stesso che guida da sempre i passi dei grandi viaggiatori, come Ulisse, Enea, Dante. Lo stesso destino che nelle grandi tragedie greche spalanca orizzonti sovrumani che trascendono i nostri sensi e ce ne fanno percepire tutta la limitatezza. Diversi comportamenti di Miu ci appaiono illogici, come quando si espone al pericolo nell’affrontare Nicklas o torna nella dimora/prigione di Rossella, quando potrebbe fuggire; sono queste azioni che rispondono a una logica diversa da quella razionale e vanno oltre il concetto comune di bene/male. E’ la sua stessa natura ad essere indecifrabile: da un lato Miu appare come una vergine miracolosa, una moneta porta fortuna, un talismano; dall’altro però è una portatrice di vendetta, un’abile negoziatrice, un’esperta di arti marziali. Con il trascorrere degli episodi capiamo che quella Miu che ci era sembrata di cristallo, in realtà è di ben diversa tempra, fatta di fuoco e di acqua al contempo. Il rosso e il blu sono del resto i colori più importanti all’interno del raffinato cromatismo della serie: dalla loro contrapposizione sembra scaturire l’intera sinfonia narrativa. Il viaggio di Miu si svolge in un luogo mitico, che solo dal titolo e da pochi altri riferimenti intuiamo essere la Danimarca: se è stata data molta enfasi al ritorno in patria di NWR, a livello narrativo la geografia poco incide su un tessuto in cui la storia trascende spazio e tempo. Del resto l’accoppiata Cowboy-Copenhagen ha soprattutto la funzione di attivare nello spettatore la sensazione di un territorio inesplorato, di una potenzialità a-logica che in-forma alla creazione artistica.

I temi che si affacciano sono altrettanto universali: tra di essi gioca un ruolo determinante la maternità, nelle sue varie forme, da quella inutilmente cercata di Rosella (Dragana Milutinovic) a quella della donna cinese miracolosamente salvata da Miu nel ristorante di Madre Hulda (Li li Zhang); per Hulda l’essere madre è parte integrante del nome ed è disposta a tutto, anche a nascondere la verità a Miu, pur di riavere la propria figlia, apparentemente rapita da un pericoloso gangster, Mr. Chiang (Jason Hendil-Forssell). La maternità è rievocata, per assenza, anche da Miu la cui nascita rimane avvolta nel mistero. Un rapporto problematico è poi quello di Nicklas (Andreas Lykke Jorgensen) con l’algida Beate (Maria Erwolter). Sono tutte descrizioni appassionate, ricche di sfumature e lontane dallo stereotipo della madre perfetta. L’interesse per la maternità rientra più in generale nell’altro tema sviluppato dalla serie in modo rilevante e cioè il discorso sulla femminilità, sulla donna. Tema peraltro al centro delle ultime opere di Refn, come dimostra anche il film Touch of Crude e che qui trova molteplici declinazioni, grazie alla sceneggiatura scritta da Johanne Algren e Sara Isabella Jonsson. Le forme archetipe prima descritte, a ben guardare si trovano tutte all’interno dell’universo femminile: della madre abbiamo già detto, ma trovare le altre corrispondenze risulta immediato, soprattutto attorno alla polarizzazione Miu/Rakel (Lola Corfixen, la figlia di Refn): la guaritrice corrisponde a Miu, il guerriero a entrambe, il vampiro a Rakel, la maga a Miu. Rakel è complementare a Miu e, anche se compare solo nel finale della serie, il suo ruolo è rilevante.

Rimasta per lungo tempo a dormire in una bara nella casa di famiglia, forse uccisa dallo stesso fratellastro, la rinascita di Rakel ha il sapore del simbolo. Rakel e Miu costituiscono la polarità Yin/Yang e in questo risiede la loro complementarietà che la narrazione esplicita a livello visivo con il gioco tra il rosso e il blu e con riferimenti incrociati (a riguardo si legga la segnalazione di Paolo Riberi sul tema dragone). Le due ragazze raccontano l’universo frastagliato e complesso della femminilità, descritto da Refn con una sensibilità molto lontana dal tono politically correct e dal buonismo progressista utilizzato nella media delle produzioni televisive. Sono entrambe due guerriere: la loro tuta è stata creata sul modello delle armature delle grandi combattenti della storia, come ricorda, nel documentario sul making della serie, la costumista Jane Marshall Whittaker.

Le figure maschili presenti nello show, al contrario di quelle femminili, mancano non solo di valori archetipi, ma in generale di valori con cui negoziare. Solo in Mr. Chang è possibile trovare un mix di gentilezza e violenza che affascina lo spettatore. Gli altri uomini sono per lo più repellenti, come sembra certificare la scelta, negli episodi iniziali, di paragonarli in modo insistito a maiali: la vicenda di Nicklas, mangiato dagli stessi suini che alleva, è significativa, così come la scelta di farlo esprimere a più riprese con veri e propri grugniti.

Miu viene interpretata senza sbavature da Angela Bundalovic, che, grazie anche alle sue esperienze come ballerina, è bravissima nel trasmettere la fisicità del personaggio, così come riesce a dar corpo alle pause, all’analisi del contesto. Miu appare sospesa tra diverse dimensioni.

Con il passare degli episodi assistiamo al disvelamento dell’origine extraterrestre della protagonista, ma in ogni singola inquadratura percepiamo che lei è altrove, che sa leggere la realtà in modo diverso dagli altri. Non a caso NWR ha parlato di Miu come del suo alter ego. Tutti gli interpreti sono in simbiosi con i rispettivi personaggi: presentano una naturalezza sorprendente che nasce paradossalmente dal fatto che non sono attori professionisti, ma fanno altro per vivere. Ogni interprete è stato scelto da Refn perché incarnava il personaggio con una semplicità e una purezza quasi ideale. I protagonisti dei film (Drive) o delle serie (Too young to die old) di Refn sono quasi muti e in questo rimandano agli eroi dei film western. L’interpretazione di Angela Budalovic è completata dalle luci, dalla musica, dalla fotografia. L’opera di Refn crea una trama in cui gli elementi si integrano in modo necessario: togliere un filo e isolarlo dagli altri è impossibile senza rovinare l’ordito. Così dobbiamo affidarci anche ai suoni elettrici di Cliff Martinez e alle composizioni di Peter Peter, alle luci monocrome al neon, ai colori saturi e alla fotografia espressionista per cercare di comprendere il viaggio di Miu. Sui messaggi di questo itinerario, di questo percorso mosso da una qualche necessità per noi indecifrabile, si potrebbero poi aprire molteplici chiavi di lettura, soprattutto nella contrapposizione con la famiglia di vampiri, che potrebbe essere letta come una contrapposizione al suprematismo maschilista (i continui riferimenti del padre all’organo sessuale maschile come elemento di potere) o come un rimando alla lotta di classe o ancora al potere della creatività anarchica contro la burocrazia e la mediocrità. Di certo altre letture potrebbero essere attivate, ma come dicevo è piuttosto il senso estetico a predominare e ad avvolgere lo spettatore fino al finale che, un po’ come tutti i finali delle serie degli ultimi anni, non chiude ma piuttosto spalanca altri mondi. Tutti da vedere.

TITOLO ORIGINALE: Copenhagen Cowboy
DURATA MEDIA DEGLI EPISODI: 50 minuti
NUMERO DEGLI EPISODI: 6
DISTRIBUZIONE STREAMING: Netflix
GENERE: Noir, Drama, Crime

CONSIGLIATO: a quanti cercano una serie Tv ambiziosa, senza concessioni al gusto quotidiano e al politically correct.

SCONSIGLIATO: a quanti si aspettano di ritrovare un prodotto di facile fruizione.

VISIONI PARALLELE: è disponibile nel catalogo Netflix un making of della serie, Copenhagen Cowboy: dietro le quinte con Nicolas Winding Refn in cui l’autore racconta l’origine della sua fiaba oscura, insieme al suo team.

UN’IMMAGINE: tra i momenti più intensi certamente il colloquio del quinto episodio, Copenaghen, tra Miu e Miroslav sul passato della ragazza. Miu sembra aver dimenticato le sue origini e il racconto dell’avvocato/criminale si sviluppa sulle immagini affascinanti di un ballo, con raggi blu e rossi che estendono il corpo di Miu in una performance visiva e musicale.

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