In uno degli ultimi episodi di The Patient il dottor Alan Strauss, psicanalista, chiede al suo carceriere, nonché paziente in cura, se conosca la barzelletta dell’inglese, del francese e dell’ebreo. Sam risponde di no e Alan inizia a raccontare. I tre sono condannati alla pena capitale ed è concesso loro di scegliere il modo in cui moriranno. Il primo opta per l’impiccagione, il secondo per la fucilazione. L’inglese e il francese sono accontentati dai loro carnefici. Arriva il turno del terzo condannato, cioè l’ebreo, che risponde: di vecchiaia. Sam non ride, ma fa propria la storiella (la riferirà qualche giorno dopo alla sua ex moglie, Mary, invitata a pranzo su suggerimento del dottor Alan). Lo psicanalista intuisce che il tempo a disposizione si sta per esaurire. Il suo destino pare segnato. Sam Fortner, sempre più scettico in merito all’andamento della terapia, gli ha appena rivelato di aver contattato un altro specialista perché lo aiuti finalmente a guarire.
The Patient è una serie FX scritta da Joel Fields e Joe Weisberg, gli ideatori di The Americans. Come tutte le limited series, quasi certamente non avrà una seconda stagione. Il duo di autori conferma la predilezione per soggetti dalla doppia identità. Nella magnifica serie con Keri Russell e Matthew Rhys si trattava di spie sovietiche in attività sul suolo americano, perfettamente camuffate nel tessuto sociale degli anni Ottanta reaganiani, qui di un serial killer che durante la settimana è un rispettato ispettore degli alimenti.
Sam spera di tenere a bada i suoi impulsi e di non commettere più omicidi. Per questo rapisce il dottor Strauss, rinchiudendolo al primo piano di una casa isolata (che si rivelerà essere l’abitazione della madre di Sam, Candace). Sam incatena Alan a un letto perché non scappi. A qualunque ora del giorno e della notte lo vuole a disposizione, solo per sé, estrema assicurazione o ultimo baluardo di fronte all’ineluttabile. Pazientemente, Alan si adegua all’incresciosa situazione e inizia una terapia su misura. Anche gli psicanalisti sono però costretti a combattere con i propri fantasmi.
Rapidi flashback ci mostrano le sofferenze di Alan Strauss, stimato professionista. The Patient incrocia il tema dell’elaborazione del lutto. Beth, la moglie di Alan, è da poco morta di cancro. Al momento della scomparsa, la famiglia era attraversata da tempo da profonde lacerazioni. I figli Ezra e Shoshana si erano allontanati, sia da lui che da Beth. In particolare, nella narrazione assume rilievo il motivo del distacco di Ezra, la sua adesione all’ebraismo ortodosso in aperto contrasto con l’impostazione liberale dei genitori. Alan inizialmente riconduce la svolta religiosa di Ezra allo schema, tipicamente freudiano, della ribellione al padre.
Il parallelismo al centro di The Patient è esplicito. Sono i genitori ad aver perso i figli. Sam sconta le violenze fisiche subite nell’infanzia dal padre, complice la reticenza omertosa della madre. Candace vive al piano di sopra ed è consapevole delle deviazioni criminali del figlio. “Tuttavia non lo denunci”, le rinfaccia il dottor Strauss in una delle ultime battute della serie. Nemmeno Alan riceve aiuto da Candace, vittima dell’infelice situazione e preda della disperazione. Alan, con una catena al piede, potrà salvare Sam? E chi salverà Alan dalla follia di Sam? Le condizioni in cui si trova ad operare sono ovviamente divergenti da qualsiasi canone terapeutico. Più volte, il dottore ricorda al suo carceriere di non essere in grado di curarlo.
L’istinto di sopravvivenza spinge Alan ad andare avanti. La fatica è immane. Il dottore deve frenare la rabbia del suo paziente, sventare il prossimo omicidio e salvare se stesso. Gli eventi peggiorano quando Sam rapisce Elias, il titolare di un ristorante etnico “colpevole” di avergli risposto male durante un’ispezione. Da mesi l’idea di ucciderlo è nella sua testa. Alan vorrebbe estirparla. Ora però Elias, l’immigrato greco che sforna un ottimo pastitsio (una specie di pasta al forno a base di carne e besciamella) è segregato in bagno, bendato e legato, a pochi passi da Alan. Due perfetti sconosciuti accomunati da un assurdo destino. L’angoscia bracca entrambi. Nei loro dialoghi, segnati da una distanza minima eppure incolmabile, qualche metro, una porta chiusa, riecheggiano le peggiori tragedie patite dall’umanità.
Alan pensa ad Auschwitz. Anzi, non è un pensiero. Il dottore cade preda di allucinazioni. Ombre di morte, visioni di olocausto. La casa di Candace è il suo campo di concentramento. È un punto problematico di The Patient, che cioè il prigioniero ebreo debba, quasi per automatismo, entrare in connessione empatica con il trauma collettivo dello sterminio. Detto in altri termini, il dottor Strauss torna ad essere parte di un comune discorso ebraico nell’esperienza della cattività, attraverso la preghiera, il testo, l’intimità religiosa. Alan sente infatti il bisogno di recitare il Kaddish, la preghiera del lutto. Sam, che non smette mai di attestare la sua stima per lui e fa di tutto per farlo sentire, per quanto possibile, a proprio agio, gliene procura una copia, segno che Alan non la conosce a memoria.
Dio è l’estremo rifugio del dottor Strauss, un ritorno difficile per chi, come lui, confida nella laicità dei comportamenti e nella razionalità scientifica. Grazie a un flashback ci accostiamo a uno dei ricordi più dolorosi di Alan, l’infelice performance di Beth al matrimonio di Shoshana. Cantare in presenza del rabbino fu un’iniziativa ardita, perché gli ebrei ultraortodossi non credono che alle donne sia permesso. Molti membri della comunità si rifiutarono di ascoltare e da allora la crepa familiare si allargò. Ben presto ci accorgiamo però dei cambiamenti in corso nella vita di Ezra. La scomparsa di Alan non è passata inosservata. I figli lo cercano. Ezra appende manifesti con il volto del padre e la scritta missing ovunque. Poi va a casa dei genitori, vuota, e riprende in mano la chitarra della madre.
Per ovviare alla crudeltà della prigionia, la mente del dottor Strauss vaga anche in altre direzioni. Il suo vecchio terapista ormai defunto, Charlie, entra nei suoi sogni. Alan mette a nudo paure terribili, soprattutto quella di non poter riabbracciare i propri figli. Ha il timore di essere arrivato alla fine dell’esistenza e gli chiede consigli su cosa fare per evitare il peggio, lamentando un’inferiorità fisica che non gli potrebbe mai consentire di aggredire Sam. Charlie gli contesta un’eccessiva tendenza alla rassegnazione. Alan punta su alcune soluzioni, non solo di tipo intellettuale, nella speranza che il tempo a disposizione sia sufficiente.
Fields e Weisberg non offrono storie consolatorie agli spettatori. Chi conosce The Americans sa che la logica di questi autori propende per un’interpretazione finalistica e deterministica delle vicende umane. Un percorso già scritto spinge verso conclusioni pressoché certe, indipendentemente dalla volontà del singolo, quasi ci si trovasse su un piano inclinato in cui l’attrito dei fatti contrari è minimo. Il dovere di rispondere alla chiamata alle armi, si tratti del potere esterno o di un’ossessione covata nel profondo, impedisce il verificarsi di ipotesi alternative (comunque prese in esame) e spegne ogni illusione di cambiamento.
La terapia risulta utile nel rallentare gli istinti del paziente omicida, che faticano a tradursi, almeno nei confronti di Elias, in azioni immediate e feroci. La tregua è comunque fragile e provvisoria. I tentativi improvvisati di Alan, ad esempio l’organizzazione del pranzo tra Sam e l’ex moglie Mary, sembrano fallire miseramente. La cura, constata un desolato e desolante Sam, non funziona.
The Patient è un saggio sulla potenza, e soprattutto l’impotenza, della parola. La serie si concentra proprio sui cortocircuiti, anche letali, della comunicazione, sulla parola riportata, dopo vari e inutili giri introspettivi, al suo puro potere prescrittivo (fare/non fare), sull’oscenità del gesto inconsulto e irrazionale a partire dalle violenze occorse nell’infanzia a Sam. “Non so perché lo facevo e comunque ti chiedo scusa”, dice il padre ad un figlio alla ricerca di spiegazioni. Premendo, in termini di scrittura dei dialoghi, proprio sull’interruzione del flusso comunicativo (la difficoltà palesata da Sam nel continuare la terapia, la ripresa a singhiozzo della cura, le terrificanti ricadute), gli autori certificano la volontà di indagare i limiti dell’espressione, non a caso in un contesto, la psicanalisi, che vive della parola parlata.
D’altro canto, gli scambi verbali e non verbali garantiscono una compattezza e una resa uniforme degli episodi (a discapito, occorre sottolinearlo, del movimento e dell’azione). La comprensione degli avvenimenti sarebbe veritiera, o addirittura integra, anche se seguissimo The Patient, perfino per lunghi tratti, a schermo nero.
“Quando uccidi vuoi sostituirti a tuo padre”. Alan coglie il centro nevralgico della sofferenza psichica di Sam. Il dialogo tra medico e paziente non sortisce la catarsi auspicata, anzi, sollecita il destinatario del messaggio a colpire il bersaglio grande. E quando Sam apprende di essere migliorato, in quanto incapace di portare a termine l’uccisione (non solo simbolica) del padre, la tragedia, nel senso classico del termine, attende il dottor Strauss dietro l’angolo. Il finale, beffardo, rafforza la tesi pessimistica. Il futuro è un disegno non modificabile nelle sue caratteristiche essenziali, l’esistenza si poggia su verità non emendabili oltre un certo limite, il destino è una traiettoria che non può essere indirizzata altrove. Al più, il male può essere efficacemente ostacolato da una forza contraria o da qualche tipo di coercizione esterna.
In The Patient il peso della parola è così preponderante che perfino le buone performance dei due attori principali risultano assorbite dal testo. Steve Carell, candidato nel 2015 all’Oscar come miglior attore protagonista per Foxcatcher di Bennett Miller, interpreta Alan Strauss. Con la sua recitazione necessariamente misurata e minimale (è pur sempre legato a un letto dal primo all’ultimo episodio), Carell è perfetto nel cesellare gli stati d’animo di Alan, l’angoscia, l’amarezza, il senso di colpa. Domhnall Gleeson, attore irlandese impegnato tanto sul versante cinematografico (tra gli ultimi film Ex Machina di Alex Garland, Revenant di Alejandro González Iñárritu e un paio di recenti Star Wars) quanto a Broadway, è il cattivo della situazione. Gleeson, fa di Sam il prototipo dell’uomo senza sorriso, di una cupezza non caricaturale, autentico nella sua mostruosità. Solo apparentemente statici, Alan e Sam sono due figure scolpite dalle rispettive sofferenze e osservati nei loro processi di trasformazione interiore. Gli altri personaggi di maggior rilievo, benchè funzionali alla storia, sono interpretati da Linda Emond, Laura Niemi e Andrew Leeds.
La ristretta durata degli episodi, solo The Cantor’s Husband raggiunge i quaranta minuti, mentre gli altri si attestano tra i venti e i trenta, carica la serie di un senso di impellenza, quasi fossimo tutti sotto la spada di Damocle di una sentenza imminente, brutale, ritardata del tempo necessario a ripensare di nuovo il passato, mentre il futuro si allontana inesorabilmente. Il fogliettino scritto da Alan è l’eredità morale di un uomo condannato a morte. Il gesto di recapitarlo ai figli conferma che Sam è umano. Anche i mostri conoscono la pietà. È forse questo il pensiero più difficile da tollerare.
Titolo originale: The Patient
Numero di episodi: 10
Durata: 21-45 minuti l’uno
Distribuzione: Disney+
Uscita: 14 dicembre 2022
Genere: Psychological Thriller
Consigliato a chi: ama le partite di ping pong notturne, ha ricevuto un’inaspettata lettera di elogio.
Sconsigliato a chi: ha lasciato alla sua ex una vecchia poltrona, è iscritto a un fan club di musica country.
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Impossibile non citare la serie In Treatment, versione americana, di cui nel 2021 è andata in onda la quarta stagione su Sky Atlantic.
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Un viaggio “storico” nella mente dei serial killer: Massimo Picozzi, Mente criminale. Storie di delitti e assassini, La Nave di Teseo, 2017.
Un’azione: scavare.
Un oggetto: il tubetto di crema per le mani.