The Makanai: Cooking for the Maiko House. L’inno all’amicizia del maestro Kore’eda.

The Makanai: Cooking for the Maiko House ***1/2

“Cammino per il mercato chiedendomi cosa cucinare quel giorno. O tengo conto della salute di tutte e decido se fare una cena leggera. E anche quando compro pesce o verdure nello stesso negozio, il sapore cambia leggermente in base alla stagione o al momento”. Nel sesto episodio di The Makanai: Cooking for the Maiko House la sedicenne Kiyo Nozuki, la makanai di casa Saku risponde così a Momoko, una delle più talentuose geiko di Kyoto. Momoko ha chiesto se non le pesi ripetere le stesse azioni, tutti i giorni, adattandosi al ruolo di cuoca (per semplificare, perché una manakai è molto di più), che non corrisponde alle aspettative iniziali della ragazza originaria di Aomori. “Ecco perché, anche usando la stessa quantità di spezie, a volte il sapore è del tutto inaspettato. Per questo dico piacere di conoscerti prima di iniziare a cucinare”.

No, non vi è nulla di meccanico o ripetitivo nei rituali culinari che Kiyo compie quotidianamente in cucina. Ogni volta, la pietanza servita a Sumire, la sua inseparabile amica, e alle altre sorelle di noviziato, è unica, irripetibile, perfetta per quel momento. Momoko afferra il senso di quella risposta, così vera e felice Il saluto, il cambiamento di sapore appena percettibile, il risultato finale inaspettato…. Lei, che conclude gli ozashiki con un’espressione di commiato, sayonara, nelle parole di Kiyo riconosce l’ichigo ichie.

Il concetto di derivazione buddhista ichigo ichie, che indica appunto l’irripetibilità di un momento, è di primaria importanza per comprendere l’essenza profonda della serie The Manakai: Cooking for the Maiko House, nove episodi firmati dal maestro del cinema contemporaneo Hirozaku Kore’eda, a trasposizione di un manga best seller di Aiko Koyama pubblicato nel 2016.

The Makanai, distribuita da Netflix, è in effetti un’opera singolare, un unicum nel panorama seriale, una gemma rara da collocarsi nel regno del miglior cinema. Se con seriale intendiamo, alla lettera, una successione, una ricorsività, una disposizione secondo un certo ordine, The Makanai rompe questo schema astratto per collocarsi fuori dal tempo, nella nicchia dell’inattuale, tanto eticamente quanto esteticamente. Eppure, è proprio all’incrocio del nostro tempo, riconoscibile perfino da un calendario appeso a un muro con l’anno 2023 in evidenza, che si colloca la storia di Kiyo e Sumire, ragazze “sempre insieme”, all’inseguimento di un sogno, in un Giappone che crede ancora agli amuleti e ai talismani.

L’antefatto: durante una gita scolastica a Kyoto, la città che conta cinque kagai, distretti dove le geiko (le geishe volgarmente intese) e le maiko (apprendiste geiko) possono praticare la propria arte, ovvero, per evitare facili fraintendimenti, performance di danza di straordinaria bellezza, Sumire è preda di una fascinazione. Le vesti eleganti e meravigliose, il portamento armonioso, la grazia che irradia dal giovane volto finemente truccato di Momoko sono gli ingredienti di un incantesimo irresistibile.

The Makanai è una splendida storia di amicizia. Quando Sumire prende la decisione di abbandonare il liceo per tentare la strada del noviziato maiko, la famiglia le volta le spalle. Kiyo invece le resta accanto, al prezzo di staccarsi dall’amatissima nonna Kayoko che l’ha cresciuta. L’impatto con Casa Saku non è semplice, soprattutto per la timida e impacciata Kiyo. Entrare in una yakata, nel dialetto locale okiya, implica la sottomissione consapevole a regole chiare. La rinuncia ai cellulari segna il distacco dal mondo esterno. Le due Madri, l’Anziana e, soprattutto, Azusa cercano di cogliere, fin da subito, indizi che segnalino la predisposizione della candidata a diventare un’autentica maiko.

Sumire non ha problemi nel pronunciare “con la massima dedizione” (la frase di rito). Kiyo non vi riesce. Durante le elaborate lezioni di danza (Mai), laddove Sumire dimostra di saper guidare “le lucciole invisibili”, Kiyo non piega l’anca nel modo richiesto. Dopo pochi giorni Azusa è costretta a dirle la verità: non ha alcuna speranza di superare il periodo di noviziato. Tuttavia, in un’okiya è possibile che altri talenti trovino spazio. Quello di Kiyo, la cucina, peraltro eccezionale per fantasia e delicatezza, le consente di restare.

Hirozaku Kore’eda, vincitore della Palma d’oro a Cannes nel 2018 con Un affare di famiglia, è forse il miglior erede del cinema classico giapponese, in particolare della lezione del maestro Yasujirō Ozu. “Ciò che conta è il carattere. Cogliere il carattere del personaggio. Bisogna esprimere i sentimenti dopo aver colto il carattere”, scriveva Ozu in un articolo del 1947 (Carattere ed espressioni del volto in Scritti sul cinema, Donzelli, 2016). “Che cosa intendo come carattere? Direi la personalità. La personalità deve assolutamente venire fuori. Questo è ineludibile per qualunque tipo di arte”.

In The Manakai, come nelle altre sue opere, Kore’eda mette in scena storie in cui i personaggi sono dolcemente connotati da motivazioni, dubbi, esitazioni, nostalgie, ricordi, un ventaglio di sentimenti che contribuiscono a definire, senza forzature, le rispettive personalità. Nessuna figura è superflua. Anche chi resta a margine del quadro principale, si veda, per esempio, Mr. Ren il barista, o l’aiutante delle maiko e delle geiko, fratello Takeshi, con suo figlio (gli unici uomini di Casa Saku) sono importanti perché non trascurati, non abbozzati. Quando il vissuto non è spiegato, questo traspare. Tutto ha un peso, una funzione, un significato. I caratteri emergono con strabiliante naturalezza, tanto da costruire, nell’insieme, un ambiente di familiarità, vicinanza, prossimità. Il senso di accoglienza percepito dallo spettatore è massimo, totalizzante.

I colori e i sapori giocano un ruolo fondamentale, tanto da costituire un florilegio sinestetico. Kore’eda riesce quasi a farci sentire, non solo vedere, le pietanze. L’accuratezza riposta nelle preparazioni è motivo di appagamento sensoriale. I gesti stessi di Kiyo ci saziano. La serie è anche un invito alla scoperta dei vivaci mercati locali. A rendere più complesso e affascinante il discorso, contribuiscono i ragionamenti attorno alle ricette. Le geiko provengono da differenti città del Giappone e il confronto tra la tradizione di Aomori e quella di Kyoto, o di Hiroshima, nel condimento di un piatto, o nell’utilizzo di un ingrediente anziché un altro, è all’origine di domande e battute che rinviano alla specifica cultura di un territorio. Quando Sumire si ammala, Azusa dice a Kiyo di prepararle una porzione di udon (tagliolini di grano tenero), serviti in un brodo non scuro, al posto del porridge di riso.

Non è forse vero che la buona cucina, allestita su un’ottima tavola, è antitetica alla guerra? Cibo e ironia, in questo, formano un connubio perfetto. L’ironia, a tratti venata da comicità, stempera i drammi, i conflitti e le rivalità all’interno della Casa. In una delle scene più rappresentative, un piatto a base di melanzane preparato da Kiyo dissuade il padre di Sumire, un medico, dall’intenzione di riportare indietro la figlia. Il sapore accende in lui un sentimento di nostalgia. Le sue stesse lacrime lo convincono a recedere.

Misticismo, culto della fortuna e consultazione di oracoli fanno parte della vita di Kyoto. Per procurare fortuna e benessere (“Io sto bene perché stanno bene gli altri”, dice Kiyo alla nonna durante una telefonata), non è inusuale fare un pellegrinaggio ai templi. I cambi di stagione sono segnati da cerimoniali antichi. Nel Giappone di Kore’eda il sacro non è morto. L’amicizia tra Kiyo e Sumire rientra in questa dimensione sacrale, se con l’espressione intendiamo un fondo di verità intangibile, uno spazio che sfugge alle leggi dell’economia e alle logiche triviali dello scambio. Una scena (non è la sola) rivela tutto. Per Sumire la prima notte da apprendista è dura. Il cuscino, un modello apposito per non rovinare l’acconciatura dei capelli, è tremendamente scomodo. Sumire, insonne, scende in cucina e qui trova Kiyo impegnata nella preparazione di una tazza di amazake, una bevanda dolce tradizionale. La dedizione disinteressata si traduce in spirito di sacrificio. Kiyo accoglie in sé il destino, diventare una makanai. La sua destinazione corre perfettamente in parallelo con lo sbocciare di Sumire come nuova maiko.

Insieme all’amicizia, l’amore è l’altro grande discorso di The Makanai, a partire dai rimorsi della Madre anziana, che finalmente ritrova un suo vecchio corteggiatore, ora attore affermato del teatro kabuki. L’amore è arrangiato nelle sue molteplici declinazioni: corrisposto, travagliato, silenzioso, interrotto. Ryoko, l’introversa figlia di Azusa che vive nella Casa senza essere una maiko, si interroga sulle intenzioni del Sig. Tanabe. Il timido professore di architettura, innamorato di Azusa ma incapace di dichiararsi, avrà finalmente il coraggio di fare un passo avanti e sposare sua madre? Momoko, la regina delle geiko, decide di non seguire Iwai, allievo del Sig. Tanabe, a Tokyo, eludendo la sua criptica proposta di matrimonio (lui la invita nella capitale per visitare insieme palazzo Myonichican, progettato da Frank Lloyd Wright nel 1921 e adibito, appunto, a sala da matrimoni). Sumire pensa a Kenta, giovane promessa del baseball di Aomori, coltivando una sottile gelosia che però non compromette il suo rapporto con Kiyo.

Lo sguardo di Ozu si poggiava sulle lacerazioni dovute all’introduzione del modello economico-sociale mutuato dall’Occidente nel Dopoguerra giapponese, sulla perdita delle tradizioni e le trasformazioni dei ruoli all’interno della famiglia. Kore’Eda si muove lungo la linea del Maestro, pur avvertendo le enormi differenze tra quel Giappone e l’attuale. Le gakai di Kyoto sono l’ultima enclave, un’oasi che ben si presta a misurare la resistenza di riti e miti secolari a fronte dello strabordante progresso tecnologico contemporaneo. I personaggi di The Makanai vivono questa contraddizione. Prima della cerimonia di Capodanno, in cui geiko e maiko fanno voto di migliorare nel nuovo anno, quattro di loro vanno da McDonald. Momoko ama il cinema horror d’antan e la scelta di associare l’annuale festa degli obake al cinema di George A. Romero, con tanto di performance in stile zombie, è un colpo di genio, nonché uno dei momenti più esilaranti dell’intera serie.

Momoko è una figura complessa. Non abbandona la professione, anzi, eccelle ogni anno di più, ma durante una conversazione con Iwai confessa che vorrebbe veder abbattute le palazzine secolari.

Nell’ultimo episodio il Sig. Tanabe afferma che ognuno, a qualsiasi età, “cerca di trovare la propria passione”. “Chi l’ha trovata è fortunata”, risponde Azusa. La via può essere tortuosa e accidentata. Almeno due altri caratteri femminili, che si incrociano sul percorso, meritano di essere citati: Yoshino, tornata da Madre Azusa per fuggire da un matrimonio poco soddisfacente e accolta in veste di “conoscente”, e sorella Tsurukoma, buffa imitatrice di Godzilla, che decide di lasciare il noviziato. Yoshino è una simpatica guastatrice, una rivale comica di Momoko, consapevole (e felice) di essere un’anomalia nel contesto della Casa. Tsurukoma perde il confronto con Sumire, riconoscendone il talento inarrivabile. Tuttavia, Azusa la invita a non cedere alle lusinghe dello spirito competitivo. Non tutti possono essere Sumire. C’è chi, come Kiyo, ha accettato di vivere in soffitta, “dove la luna è più vicina”, trasformandosi in una makanai dalle mani fatate.

Il cinema sono le impressioni che ti rimangono dopo, sosteneva Ozu. La metafora migliore per raccontare, in estrema sintesi, il significato di The Makanai è fornita dal tonjuru, una zuppa a base di carne di maiale e verdure, preparata da Kiyo in occasione della promozione di Sumire a maiko e del suo cambiamento di nome (da Sumire a Momohana). “Ogni sorella è associata a una verdura”. E il sapore è irripetibile.

Titolo originale: The Makanai: Cooking for the Maiko House.
Numero di episodi: 9
Durata: 40 minuti l’uno
Distribuzione: Netflix
Uscita: 12 gennaio 2023
Genere: Drama, Comedy

Consigliato a chi: indossa per primo il calzino sinistro, colleziona carte portafortuna, preferisce la fotografia analogica a quella digitale.

Sconsigliato a chi: non crede di poter vincere alla lotteria, confonde l’OMS con l’UNICEF, non trova poetici i raggi di sole.

Visioni e letture parallele:

  • Di Kore’Eda, il film più vicino per tematiche e sensibilità a The Makanai è Little Sister (2016), disponibile su RaiPlay.

  • Un regista horror può raccontare con sorprendente grazia i sentimenti? Si, è il caso di Kiyoshi Kurosawa e del suo film Journey to the Shore (2015), disponibile su Mubi.

  • La dura vita reale delle geishe della prima metà del Novecento: Masuda Sayo, Il mondo dei fiori e dei salici, O Barra O Edizioni, 2014.

Un avvertimento: “La tua natura stoica è il talento più grande, ma quella natura stoica terrà la gente lontana da te” (Momoko a Sumire).

Un proposito: Noi creeremo buone tradizioni in ogni momento e saremo amate da tutti.

Un cocktail: “Tutti-hanno-dei-segreti”, offerto dal Sig. Ren a Sumire.

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