Questa sera la giuria capitanata da Steven Spielberg sceglierà i vincitori di questa 66° edizione del Festival di Cannes.
Un’edizione che conferma in pieno i grandi pregi ma anche i limiti della formula della direzione di Thierry Fremaux. Il concorso di Cannes è un magnifico circolo chiuso, in cui si entra per merito, ma da cui non si esce più.
I grandi registi fanno la storia del festival, nel bene e nel male. Ed anche se hanno un po’perduto la capacità di interrogare il mondo e di raccontare qualcosa di sé, le porte della kermesse per loro rimangono sempre aperte.
Questo naturalmente produce una rassegna sempre di buon livello complessivo, ma talvolta avara di grandi sorprese.
E quest’edizione ne è l’ulteriore conferma. Con la sola eccezione di La vie d’Adele di Kechiche – unico capolavoro della rassegna – che peraltro arriva a Cannes per la prima volta, dopo tre partecipazioni veneziane, nel concorso tutti hanno più o meno mantenuto il loro consueto standard produttivo.
Tra i migliori certamente Inside Llewyn Davis dei fratelli Coen e Nebraska di Alexander Payne. Due ottimi film, anche all’interno delle filmografie dei loro autori.
Chi per ambizione, generosità e forza, sembra ambire ad un premio è il nostro Sorrentino, che con La grande bellezza racconta il vuoto di una generazione che ha dissipato il proprio talento. Solo gli italiani non l’hanno capito: forse perché molti di loro si sono rivisti con orrore nel ritratto impietoso di quel vuoto morale ed intellettuale?
Quindi sono arrivate le conferme di Jia Zhangke, che con A touch of Sin però lascia dietro di sé un’ombra di eccessiva programmaticità nel suo quadruplo racconto di una Cina amorale e rabbiosa, e Asghar Farhadi, che scrive sempre magnifiche storie e tormentati personaggi, ma a cui manca l’Iran, la sua storia, le sue tradizioni, il suo continuo scontro con la modernità. Le passè è un ottimo film, ma non ha la forza di Una separazione.
Anche Polanski, Soderbergh e Jarmush hanno portato sulla Croisette dei film con grandi qualità, ma che forse non aggiungono molto a quanto di buono sapevamo sul loro cinema e sulle loro ossessioni.
Discreto anche il lavoro di Ozon con Marina Vacth, Jeune et jolie, ma dopo aver visto Kechiche, il suo film sbiadisce nel ricordo. Certamente sopravvalutato Like father like son del giapponese Kore Eda che però potrebbe avere più di qualche sostenitore nella giuria.
Difficile azzardare pronostici sul palmares. Almeno cinque, sei film potrebbero puntare legittimamente alla Palma. Anche se il film di Kechiche sembra essere su un altro piano. Ma sarà piaciuto a Spielberg?
Per i premi agli attori, le due di La vie d’Adele sono in pole position, se Kechiche non vincerà direttamente la Palma, altrimenti si potrebbero aprire spazi per Berenice Bejo, Kristin Scott Thomas, Emmanuelle Seigner. Tra gli interpreti maschili, il duo Matt Damon-Michael Douglas, Bruce Dern, Oscar Isaac ed il nostro Toni Servillo sono tra i migliori.
Farhadi, i fratelli Coen e l’autore di Nebraska sembrano i più papabili per il premio alla sceneggiatura, mentre per quello alla regia, Nicolas Windign Refn potrebbe avere qualche carta da giocare, anche se il suo Only God Forgives ci ha lasciato assai freddi.
Due perle arrivano da Un certain regard, L’image manquante e Manuscripts don’t burn, racconti dolorosi e tragici che puntano al cuore del potere e dei meccanismi con cui alimenta e perpetua la sua immagine.
Pregevole il nuovo film di J.C.Chandor, All is lost, nel fuori concorso, completamente opposto a Margin call, ma ugualmente riuscito.
Debole ci è sembrata complessivamente la sezione Un certain regard, appesantita da troppa zavorra, ed assai poco interessanti le sortite nella Semaine de la Critique ed alla Quinzaine.
Temi e immagini ricorrenti sono state quelle d’amore, in tutte le declinazioni: esplicito, a pagamento, omosessuale, libero, estatico, incestuoso, violento, sadomasochistico.
Pochi gli sguardi sul futuro, mentre il presente per lo più infelice, sembra portarsi dietro il carico di un passato ingombrante. Sono tempi assai difficili, a tutte le latitudini, tanto nella locomotiva cinese, quanto nel grande gigante americano e nella vecchia europa.
Poco cinema di genere, poca fantascienza (Ari Folman ha deluso molto con il suo confuso The congress, tratto da Lem), poco horror, ma non abbiamo visto il fenomeno del Sundance We art what we are, grandi documentari: Lanzmann ancora sull’Olocausto, Marcel Ophuls sulla sua vita ed i suoi incontri, Polanski sulla formula uno.
Speriamo che la giuria sappia cogliere e valorizzare con equilibrio il meglio di questa edizione, complessivamente più che discreta.