Una separazione ****
Il cinema iraniano è stato per tutti gli anni novanta, un serbatoio inesauribile di opere straordinarie, figlie di una ritrovata – seppur minima – libertà artistica, di un’urgenza narrativa impellente che si scontrava con una società che sembrava secolarizzarsi, emancipandosi dal rigido protocollo confessionale.
L’ascesa di Ahmadinejad e la repressione politica che ne è seguita, accompagnata ad una restaurazione culturale e religiosa, sembravano aver disperso quel patrimonio di idee, coraggio e straordinaria libertà formale, che registi come Kiarostami, Panahi, Makhmalbaf avevano fatto conoscere al mondo intero.
Ora Kiarostami è costretto a girare in esilio, prima in Toscana e poi in Giappone, Makhmalbaf è forzato al silenzio e costretto a passare il testimone ai suoi figli, mentre Panahi dopo un processo assurdo è finito in carcere prima ed agli arresti domiciliari poi, condannato a non poter girare più “ufficialmente” per 20 anni.
Sembrava la fine di un movimento vitale, capace di squarciare un velo sulle piccole, grandi contraddizioni di una società in via di trasformazione.
Poi arriva al Festival di Berlino ed ora nelle sale anche italiane, grazie alla Sacher di Nanni Moretti, questo meraviglioso Una separazione, che ci riporta, pur in forme e modi diversi, alla felicità espressiva di quegli anni: un film in cui forse l’aspetto metaforico è più sfumato, ma in cui il racconto si fa intelligentemente specchio dei conflitti, che scorrono sotterranei in una città complessa e spesso incomprensibile come Teheran.
Asghar Farhadi racconta della richiesta di separazione di Simin dal marito Nader. I due si ritrovano in tribunale, davanti ad un giudice che vuole sapere perchè, dopo quattordici anni, i due vogliano sciogliere la loro unione. Simin vuole lasciare il paese con la figlia Termeh, per darle un futuro diverso, ma Nader non vuole abbandonare il padre, malato di Alzheimer. Termeh sembra parteggiare per il padre, con il quale ha uno splendido rapporto.
Simin si trasferisce quindi dalla madre. Nader è costretto allora ad assumere una donna, Razieh, che accudisca l’anziano genitore. Razieh, sempre accompagnata dalla piccola figlia, è una donna molto religiosa: non potrebbe lavorare per Nader, ma il marito, che è all’oscuro di questo impiego, è disoccupato da diverso tempo e Razieh cerca di fare il possibile per consentire alla propria famiglia una vita dignitosa.
Razieh è incinta di quattro mesi, ma Nader sembra non saperlo.
Dire di più sarebbe voler fare un torto ad un film in cui gli eventi assumono importanza mano a mano che il racconto procede. Le due scene chiave avvengono fuori campo, lasciando allo spettatore i dubbi e le incertezze che contraddistinguono anche il comportamento dei protagonisti.
Raffinatissima riflessione sulla verità e sulla rappresentazione, Una separazione mette in scena un conflitto che si nutre di incomprensioni, differenze culturali e sociali e scelte impossibili.
La separazione iniziale di Nader e Simin è solo lo spunto per raccontare una società attraversata da altre e più profonde divisioni, in cui il conflitto è solo apparentemente occultato, pronto ad esplodere, quando un incidente finirà per sconvolgere la vita di tutti, costringendo i protagonisti ad una battaglia personale e giudiziaria, dalla quale usciranno tutti sconfitti.
Come sempre le giustizia dei tribunali è imperfetta e approsimativa, quella confessionale è ancora più fallace ed incomprensibile e persino quella degli affetti e dei sentimenti vacilla.
Il film di Farhadi, apparentemente lineare, si rivela in tutta la sua straordinaria complessità, quando costringe lo spettatore a fare i conti con gli eventi a cui ha assistito, a cui non ha dato la giusta importanza sin dall’inizio, proprio come accade ai suoi protagonisti.
Occorre ripensare agli eventi, ai particolari, alle parole non dette ed alle immagini non viste, che lasciano incerti e lontani da soluzioni semplici.
Il film, che comincia con un’inquadratura di Nader e Simin, davanti al giudice civile, sembra suggerire un’oggettività di giudizio, che si rivelerà una chimera irragiungibile. Il film continua infatti pedinando i protagonisti con una mobilissima camera a mano, capace di entrare negli spazi, sempre più angusti in cui si svolgono le loro azioni, dalle aule di tribunale, alle case delle due coppie, incorniciate da vetrate e porte, quindi nelle auto che attraversano la trafficatissima Teheran.
Farhadi sembra voler comprende le ragioni di tutti, ma sottraendo al nostro sguardo i due eventi chiave, finisce per rappresentare un labirinto sempre più soffocante e claustrofobico, da cui non si può che uscire sconfitti. Solo nel finale la macchina da presa riprende la sua perduta centralità, inquadrando ancora una volta Nader e Simin, questa volta distanti, divisi da un’altra vetrata, ma incapaci di guardarsi.
Una separazione dipinge una città ed un paese bloccato e diviso, con una borghesia laica, che oscilla tra il rispetto dei padri – e delle loro tradizioni culturali e religiose – e i desideri di fuga e di progresso.
Lo stesso ruolo della donna è rappresentato in forme e modi meno uniformi di quanto ci saremmo aspettati, in continuo dialogo con l’ortodossia religiosa e con una giustizia impotente e fragile.
Farhadi sembra suggerire un’amara considerazione sul fallimento di un’intera generazione, impotente di fronte alla verità, schiava delle proprie contraddizioni e senza un’identità.
Il futuro è tutto sulle spalle della giovane Termeh, chiamata ad una sintesi impossibile e dolorosa.
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