Cannes 2011. The tree of life

Era il film piu’ atteso di questa edizione, doveva essere a Cannes l’anno scorso, poi e’ stato annunciato a Venezia, finalmente questa mattina, dopo tre anni di montaggio e post produzione, il mistero e’ stato svelato.

THE TREE OF LIFE di T.Malick ****

Concorso

Raccontare a caldo cos’e’ The tree of life, cercare di comprenderlo e spiegarlo nelle poche parole di una recensione e’ impresa ardua e forse vana.

Malick trascende ogni logica classica, rompe ogni rapporto di causalita’ e lascia spazio alle emozioni, alle sensazioni, alle speranze, ai dubbi che da sempre accompagnano la vita dell’uomo.

Le scarne informazioni sulla trama, sinora circolate – la storia di una famiglia nel Texas degli anni ’50 e quella di uno dei figli, ormai adulto, molti anni dopo – corrispondono esattamente a quello che Terrence Malick racconta nei 138 minuti del film. Dal punto di vista narrativo anzi, la parte contemporanea e’ ridotta a pochissime immagini all’inizio ed alla fine del film, rendendo il ruolo di Sean Penn quasi un cameo. Per questo forse, l’attore ha disertato la conferenza stampa, lasciando a Brad Pitt e Jessica Chastain, padre e madre nel film, il compito di presentarlo al mondo.

Si dice spesso che tutte le storie sono gia’ state raccontate e allora Malick decide di farne volentieri a meno, soffermandosi solo sulle immagini, sui ricordi, sulle suggestioni, anche quelle di una farfalla, di un’ombra sul muro, di una luce nella notte, con lo stesso meraviglioso stupore di un bambino.

The Tree of life è in fondo una dolcissima elegia per un fratello scomparso troppo presto: la storia che Malick ha impiegato 30 anni a raccontare è in fondo la sua, quella della sua famiglia e di un dolore che non trova pace se non nel ricordo di un periodo magico, in cui tutto sembrava possibile ed i cui le domande eterne del nostro stare al mondo sembravano scontrarsi con la bellezza e la grazia di un microcosmo felice.

A lungo pensato e riscritto nel corso degl’anni, originariamente intitolato Q, il film esaspera e radicalizza lo stile erratico ed ellittico di Malick, che non si preoccupa piu’ di raccontare davvero una storia, che sia la presa di Guadalcanal o l’amore di John Smith e Pocahontas, ma cerca di parlare direttamente alla nostra anima, alle nostre emozioni, senza piu’ filtri, con l’ambizione smisurata di fare un film interamente filosofico e morale.

Forse solo Kubrick e Coppola si erano spinti con tanta audacia su questo crinale pericolosissimo, fatto di astrazione e ricerca. Eppure anche loro si erano affidati ad un impianto narrativo solido, come quello del viaggio, alla scoperta di se’ e dell’altro. Malick invece si astiene del tutto da ogni narrazione tradizionale, privilegiando il frammento, il ricordo, la pura gioia del momento.

Molti in queste prime ore hanno scritto di andamento sinfonico, forse ispirati dalle note presenti nel press book del film. In realta’ per chi abbia un po’ di familiarita’ con il jazz, siamo dalle parti di Keith Jarrett: il famoso pianista da moltissimi anni si esibisce in due formazioni. In trio, riproponendo alla sua maniera, alcuni degli standards piu’ classici della musica americana degli anni ’40 e ’50, oppure da solo, lasciandosi trasportare ogni sera dall’ispirazione piu’ pura, alla ricerca inesausta della magia che le note riescono a trasmettere.

Terrence Malick nei suoi primi quattro film ha suonato in trio, affidandosi ad una forma codificata e lasciando sullo sfondo le sue riflessioni piu’ intime. Con The tree of life si e’ lanciato nell’esperienza piu’ difficile del solo, senza piu’ limiti, ma anche senza sicurezze.

The tree of life e’ come un concerto in solitaria di Jarrett. Richiede al pubblico la massima attenzione, il silenzio, richiede di lasciarsi andare completamente, accettandone anche i passaggi oscuri, meno riusciti. Se questo albero della vita e’ il suo Koln Concert lo dira’ solo il tempo.

La macchina da presa e’ in costante movimento, in una ricerca inesausta di verita’, bellezza, amore. La fotografia di Emanuel Lubeski e’ fenomenale, privilegiando, come di consueto, prospettive dal basso e lenti grandangolari.

L’epigrafe che apre il film e’ dal libro di Giobbe: Where were you when I laid the foundations of the earth? Tell me, if you have understanding.

E’ un tema che ritornera’ nel corso del film: la presenza del Signore e’ imperscrutabile e misteriosa. Cosa siamo noi, per lui? Nella grandiosita’ senza fine dell’universo e del microcosmo, del tempo e della storia, la vita di un singolo uomo che valore ha? La natura e’ spesso indifferente ai nostri sforzi, si prende gioco delle nostre sofferenze.

Malick cerca di dare una risposta a interrogativi eterni, che hanno animato la nostra esistenza, sin dalle origini. Il senso di questa ricerca e’ tutto nell’inquadratura chiave di tutto il suo cinema, che ritorna piu’ volte anche in The tree of life, quella della luce del sole che passa attraverso i rami di alberi altissimi e si insinua come fragili dita nel verde della natura.

E’ li’, in quel contre-plonge’ assoluto, che Malick ed i suoi personaggi finiscono per ritrovarsi.

Il compito e’ impari, eppure The tree of life cerca continuamente un equilibrio impossibile tra il racconto dell’evoluzione del cosmo e quello di una singola famiglia, nel corso di pochi anni.

Malick costruisce un lunghissimo poema per immagini, in cui passato e presente si tendono continuamente la mano: attraverso la piccola storia degli O’Brien e dei loro tre figli, The tree of life cerca una risposta anche all’eterno conflitto tra la dura razionalita’ paterna e l’amore incondizionato materno, tra la via della natura, fatta di sopraffazione, crudelta’, successi e sconfitte e la via della grazia, nella quale c’e’ spazio solo per l’amore e la bellezza.

Jack e i suoi due fratelli minori, crescono nei sobborghi di Waco, una cittadina del Texas, divisi tra la rigida educazione paterna, che li vorrebbe rispettosi, responsabili e devoti e quella materna, che non chiede nulla se non affetto incondizionato.

Il padre lavora in una grande industria ed e’ il tipico americano degli anni ’50, che ha fatto la guerra e che si affida incondizionatamente alla sacra trinita’ del sogno americano: Dio, Patria e Famiglia.

Dopo una parte iniziale, ambientata verosimilmente nei primi anni ’70, in cui la madre (Jessica Chastain) riceve la notizia improvvisa della morte di uno dei figli, ritroviamo il piu’ grande, Jack O’Brien, molti anni dopo a Huston, in un grande studio di architettura, mentre ricorda il fratello prematuramente scomparso.

Il film compie quindi un salto temporale, la cui radicalita’ e’ pari solo a quella di 2001: odissea nello spazio. Il film mostra immagini dello spazio e del microcosmo, cellule che si moltiplicano, profondita’ marine, pianeti e orbite, vulcani che eruttano. Siamo quindi magicamente nella notte dei tempi e poi nell’era dei dinosauri.

Con la stessa liberta’ narrativa con cui era cominciata, introdotta da una fioca luce sullo schermo, Malick termina questa ellissi temporale vertiginosa, per ritornare alla famiglia O’Brien negli anni ’50: quasi tutto il film racconta infatti un breve periodo di formazione, con i tre figli piccoli ancora piccoli, che termina con la chiusura della fabbrica ed il trasferimento in un’ altra citta’.

Malick elimina ogni dialogo nella prima ora di The tree of life, affidandosi, come suo solito, al flusso di coscienza dei protagonisti, che accompagna immagini di una bellezza indicibile.

E’ la musica a farla da padrone: oltre alla colonna sonora, composta appositamente da Alexandre Desplat, ci sono Bach, Brahms, Berlioz, Mahler, Holst, Respighi, Gorecki, a rendere epico ogni particolare.

Se quella di Kubrick era un’odissea nello spazio della mente umana, questo di Malick e’ un viaggio nell’anima e nella memoria, alla ricerca di Dio – forse – e dell’unicita’ di ogni essere umano e del suo ruolo nella Storia.

Ci sono elementi autobiografici fortissimi nel racconto di questi fratelli così legati e destinati a separarsi bruscamente, cosi’ come nei desideri di un padre che vorrebbe solo educarli alla durezza della vita ed a perseguire il successo personale ad ogni costo. E naturalmente ci sono gli studi di filosofia e il passato di professore di Terrence Malick.

Certo The tree of life richiede abbandono totale al suo flusso ipnotico e meditativo. Nel lungo poema per immagini, spesso si aspetta una svolta narrativa che non arrivera’ mai. La prosa non entra mai a rendere razionale un viaggio interamente emotivo.

Forse ad una prima visione il film può lasciare un po’ confusi, soprattutto dopo l’impressionante viaggio nel tempo.

Rivedendolo una seconda volta, non si può che ammirare lo straordinario lavoro di Malick anche nella parte ambientata a Waco negli anni ’50: la sua macchina da presa è sempre in movimento, pronta a cogliere gesti, sorrisi, lacrime, delusioni dei suoi personaggi.

Realtà, sogno, immaginazione, ricordi sono indistinguibili: la piccola storia degli O’Brien diventa malinconia universale di un tempo felice.

Malick vola altissimo, si spinge la’ dove pochissimi avevano osato, forse troppo per la pazienza dello spettatore moderno, anche di quello attento che segue i festival e cerca qualcosa di piu’. La sua ambizione e’ sconfinata, inesausta, capace di rompere definitivamente il patto con il pubblico, in forza di uno spirito iconoclasta, senza pari.

Non c’e’ dubbio che il film suscitera’ analisi, riflessioni e polemiche, anche feroci, tra detrattori e avversari, come gia’ si e’ visto alla proiezione stampa di Cannes, terminata tra applausi e fughe precipitose. The tree of life si presta perfettamente ad ogni opinione radicale, a seconda che si scelga, anche noi spettatori, cosi’ come i protagonisti del film, la via della natura o la via della grazia.

Malick reinventa il cinema, con uno sguardo innocente e purissimo, che finisce per travolgere e far dimenticare ogni categoria.

Siete disposti a seguirlo?

44 pensieri riguardo “Cannes 2011. The tree of life”

  1. Aspettavo impaziente da tempo l’uscita di questo film e mi precipiterò al cinema alla sua uscita questa settimana.
    Questa recensione mi rende ancora più impaziente in quanto trasmette tutta la magia e la bellezza che devono essere in questa pellicola, mi sembra di capire che i contenuti che arrivano sono quelli emotivi e non tanto quelli concettuali e io ritengo che siano i primi i più importanti in un film che appaga l’interiorità.
    Il paragone con Kubrick, mio preferito in assoluto, mi intriga ancora di più.
    Su queste pagine a film visto !

    1. Cara Nadia,

      spero tu abbia ragione!!! attenderò conferma della vittoria delle emozioni ….

      Buona serata!!!

  2. non potevo davvero resistere…

    mi sono innervosito per il piu’ minimo rumore che in sala disturbasse l’ascolto; il film e’ un orgia visiva, un baccanale di grazia e bellezza, il ministero di grazia e bellezza cinematografica…
    evidentemente sono stato trascinato nelle magnifiche spire del film…
    Il linguaggio e’ il linguaggio che gia’ si conosceva di Malick, ma il risultato qui e’ piu’ asciutto, piu’ scavato che altrove.

    20 minuti iniziali con 10 sussurrate battute fuori campo. coraggioso e sublime.
    poi
    Si torna bambini, si riascoltano le domande che ci facevamo da piccoli, si vagabonda tra le sensazioni piu’ diverse in un arcobaleno straordinario fotografato nel modo piu’ dolce, sottile ed accogliente possibile. Le immagini sono memorabili nonostante la camera svolazzi in continuazione o in controtendenza con il movimento degli attori o persino autonomamente come spesso ci aveva abituati Terrence M.:
    Per lo spettatore e’ un film senza maschere o preconcetti, ne seguiamo il filo cullandoci con lui in quella luce sempre fuori dal tempo, da una cronologia degli eventi.
    Si procede per associazioni, per stati differenti.

    Dice le cose piu’ profonde senza mai usare parole.
    pochi dialoghi. Poche battute. Scarno luminoso, elegante, indimenticabile. Una nota poco azzeccata? i dinosauri.

    Un elegia mistica, un ecloga visiva.
    da vedere in stato di commovente compartecipazione.
    Davanti a questo film si e’ ‘soli’ anche se immersi in una sala gremita.

    1. Ciao Carlo, condivido in pieno la tua analisi.
      Ti scrivo giusto perchè fai riferimento ai dinosauri, che invece nel mio modo di percepire ciò che vedevo scorrere davanti ai miei occhi, sono stati un momento di emozione.
      Come se ci fossero elementi che che accomunano gli esseri viventi già dalla loro origine: la compassione che penetra nella legge di natura, la grazia che si mescola al vivere secondo natura, ciò secondo la legge del più forte. Il dinosauro predatore che ha compassione del moribondo.
      Vabbè una piccola riflessione per un film bellissimo, che rilascia continue riflessioni.
      🙂

  3. Mi dispiace, ma nel complesso boccio qst film di Malick. Ha tanti pregi: coraggioso, fantastico a livello estetico, è cinema e non un semplice film, grande regia e fotografia mozzafiato. Ma poi? Tutto qui? E l’emozione Malick dove l’ha messa? Se l’è mangiata?? Il film è freddo, rimane insipido, scotto, alienante. Non basta una foglia al vento per commuovere o un sano scontro padre/figlio in sala da pranzo. E’ sì coraggioso, ma altrettanto presuntuoso… peccato, mi aspettavo un bel film…invece…
    Ne parlo sul mio blog: http://onestoespietato.wordpress.com/2011/05/28/the-tree-of-life-malick-delude/ se vi va leggete e commentate… : )

  4. Caro Marco, la cosa di gran lunga più lusinghiera di questo, si fa per dire, film, è la tua colta e splendida recensione, che vola molto al di sopra delle assurde pretese e delle private paranoie (se non mistificazioni) inflitteci dal regista.
    A parte una serie di suggestive ed ipnotiche immagini alla 2001 Odissea nella Spazio (più adatte, per altro, ad un documentario di Piero Angela ed ascrivilbili a merito pressocchè esclusivo del fotografo e degli esperti in computer), il film è una disarticolata rappresentazione di una mormona periferia americana, tanto livida e squallida, quanto estranea alla nostra sensibilità e cultura, che non vedo coma possa suggerire tutti i peana, la filosofia, le “emozioni” a buon mercato e le visioni ultraterrene che vedo stratificarsi (ed alle quali, infatti, non credo minimamente).
    Il pubblico, annichilito, non osava abbandonare la sala, per non farsi “riconoscere” dagli altri pretesi intenditori e per non ammettere di essersi fatto volontariamente intrappolare in un’impresa insensata e mortificante.
    La prossima volta che non mi avvertirai di quello che dovrebbe essere un ineludibile limite al masochismo ti toglierò il saluto.
    P.S.: spero che Malick possa avere in futuro una resipiscenza ed ammettere finalmente, come fece Bergmann, “segnalo ai critici che questa scena – mi pare si trattasse di fuochi d’artificio – non ha alcun significato recondito o piscologico”.
    A che pro prenderci ancora in giro, alla nostra età?

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