Ecco il grande film sulla fine, sui nostri incubi più spaventosi, sulle paure che esplodono, in una schizofrenia paranoica e autodistruttiva.
Take Shelter affronta con straordinaria efficacia e forza drammatica molti dei temi, che anche Von Trier ha messo al centro del suo ultimo controverso film, Melancholia.
Ma mentre il regista danese si compiace della sua maestria e gode nel rappresentare il suo solito mondo di donne instabili, depresse, impaurite o mistiche, dedite al martirio, Nichols, qui alla sua opera seconda, si affida ad uno straordinario Michael Shannon, che incarna inquietudini e angosce di inizio secolo.
Padre di famiglia, adorato dalla moglie Samantha, con una figlia sordomuta, Hannah, in lista d’attesa per un impianto cocleare, Curtis LaForche lavora nel campo delle costruzioni ed ha una casa ed un giardino nei sobborghi di una cittadina dell’Ohio.
Nella vastità orizzontale del panorama del midwest, l’occhio si perde in lontananza. La natura sembra incontrollabile e severa.
Quello di Curtis è un mondo piccolo borghese, felice: il suo migliore amico lavora con lui, la sua famiglia è benvoluta dalla comunità, la sua assicurazione medica è eccellente e coprirà i costi per l’intervento alla piccola Hannah.
Eppure qualcosa non va. Nella notte Curtis comincia a sognare l’addensarsi di fitte nubi minacciose, che portano una pioggia scura e oleosa. Il suo sonno diventa agitato, immagina di essere attaccato dal cane di casa, quindi di vedersi rapire la figlia, infine è la moglie a mettersi contro di lui.
Cerca conforto dal suo medico di famiglia e dai servizi sociali, ma senza trarne molto beneficio. Nonostante i tranquillanti lo aiutino a dormire, gli incubi lo perseguitano anche di giorno, convincendolo a costruire un rifugio sotterraneo nel proprio giardino, in vista di un uragano distruttivo, che sente avvicinarsi.
Per far questo mette a repentaglio la propria famiglia, il lavoro ed i suoi risparmi. Assalito dai dubbi va a trovare l’anziana madre, a cui fu diagnosticata la schizofrenia in giovanissima età.
Non ha il coraggio di confessare alla moglie i suoi incubi, almeno sino al momento in cui Samantha disperata non minaccerà di abbandonarlo.
La situazione degenera in una serata di festa della piccola comunità, nella quale Curtis esplode davanti a tutti, profetizzando l’imminente catastrofe.
Il racconto è teso, paranoico, angosciante e procede con una suspense sempre più ossessiva.
La progressione drammatica si avvale quasi solo della straordinaria maschera di Shannon e del rigore narrativo della parabola, scritta da Nichols.
Questo Take Shelter è un racconto di genere ed anche una grande allegoria dell’America in balia della più grave e lunga crisi dal secondo dopoguerra. Una crisi cominciata l’11 settembre 2001, protrattasi negli anni della War on Terror, esplosa con ancora più veemenza nel 2008 con lo scoppio della bolla speculativa sui derivati, quindi scivolata nel vecchio continente con l’attacco all’euro ed ai debiti sovrani, in una spirale apparentemente senza una via d’uscita, che non comporti dolore, povertà, sacrifici.
E che in tempi di pandemia globale è tornata a farsi pressante, opprimente.
Le certezze conquistate a fatica dalla classe media sono, per la prima volta in mezzo secolo, seriamente in discussione. Le magnifiche sorti e progressive del capitalismo trionfante di fine secolo, rappresentato dall’America clintoniana, si sono tramutate nell’incubo apocalittico che il De Lillo di Cosmopolis aveva già profetizzato, forse con troppo anticipo.
Il pericolo sembra arrivare dall’esterno, una bufera – finanziaria o naturale che sia – può mettere in discussione quell’illusione di serenità, fatta di una piccola casa confortevole, una famiglia unita ed un lavoro ben retribuito.
Ma la minaccia arriva davvero dall’esterno? O forse è nascosta dentro di noi, nel nostro modo di pensare, di ragionare sul mondo, nel nostro sviluppo dissennato ed allo stesso tempo schiavo delle paure?
Nichols non sceglie strade facili e costruisce un racconto potente, che non si scioglie nel sensazionalismo ad effetto e nel conservatorismo millenarista alla Shyamalan, ma preferisce l’orrore psicologico del primo Polanski, il senso della minaccia degli uccelli di Hitchcock.
Il piano del racconto di genere (Curtis è un pazzo o un profeta?) si sovrappone alla metafora più grande, che coinvolge tutti. La paura di perdere ciò che ci fa stare bene è un incubo, che ci insegue e ci tormenta.
Il modello di sviluppo economico che abbiamo conosciuto a partire dagli anni ’50 è forse giunto al capolinea ed il futuro si annuncia come una tempesta che arriva da lontano.
Michael Shannon non è nemmeno più una sorpresa. Il suo sguardo nervoso, pronto ad esplodere, assomiglia a quello del giovane Christopher Walken, la sua presenza fisica si impone.
La moglie è Jessica Chastain, già straordinaria in The tree of life, qui alle prese con un altro ruolo di madre. Nichols le regala almeno due scene perfette, la prima quando Curtis le racconta finalmente i suoi incubi più neri, la seconda nel rifugio sotterraneo. E’ lì, in quei primi piani, che assistiamo al crollo di ogni illusione: Samantha si accorge di aver accanto a sè un uomo nuovo, che non comprende più, di cui deve ricominciare a fidarsi e che deve spingere a riconquistare le sue sicurezze.
Curtis è l’uomo comune sopraffatto da forze che non comprende, ma che sente avvicinarsi. E’ lo specchio di un’America che si sente ferita, scossa, minacciata nelle fondamenta del suo modo di vivere e dei suoi valori. Purtroppo quella paura ha varcato l’oceano travolgendo anche la vecchia Europa: il racconto di Nichols ci riguarda tutti.
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