Prodotto da Darren Aronosfky per Netflix, The Good Nurse è tratto dal libro di Charles Graeber, che ricostruisce gli ultimi delitti e la cattura di Charles Cullen, serial killer condannato per 29 omicidi, ma sul cui capo pesa il sospetto di quasi 400 morti.
La scozzese Krysty Wilson-Cairns (1917, Ultima notte a Soho) ne ha tratto una sceneggiatura tutta in sottrazione, che sposa il punto di vista dell’infermiera Amy Loughren, una collega di Cullen al Parkfield Memorial Hospital nel New Jersey, che fu determinante per aiutare gli agenti a inchiodare il silenzioso assassino.
Il film comincia nel 1996 in Pennsylvania con i rumori di una terapia intensiva, un intervento disperato di medici e paramedici e il decesso del paziente. L’infermiere Charlie Cullen viene allontanato.
Lo ritroviamo nel 2003 appena assunto in un’altra struttura, che condivide i turni notturni con Amy, una madre sola, con due bambine e un serissimo problema cardiaco, ma ancora priva di copertura sanitaria, nonostante lavori in ospedale da otto mesi.
Charlie è il collega perfetto: premuroso, dai modi gentili, capace di instaurare un dialogo coi pazienti e la collega. Aiuta Amy anche a casa, con le bambine.
Ma quando una loro anziana paziente muore senza motivo, Linda Garran, la risk manager dell’ospedale apre segretamente un’indagine interna, il cui unico scopo è quello di ostacolare la polizia e la procura, evitando che la struttura subisca le conseguenze di una causa penale o civile. I due detective brancolano nel buio, il cadavere è già stato cremato e ogni tentativo è frustrato dal muro di gomma eretto dalla Garran.
Quando tuttavia muore inspiegabilmente un’altra giovane paziente, Amy decide di collaborare con la polizia e pur attraverso lo scarno dossier consegnato agli inquirenti, mette i detective sulla strada giusta, intuendo il modo con cui Charlie provoca la morte dei pazienti.
Il film, diretto dal danese Tobias Lindholm, sceneggiatore dei migliori film di Vinterberg (Il sospetto, Un altro giro) segue a sette anni di distanza il suo riuscitissimo A War, candidato all’Oscar per il miglior film straniero.
Il risultato sembra un lavoro di pura occasione, lontanissimo sia dall’audacia sia dalla complessità morale dei suoi precedenti, tutto schiacciato sull’interpretazione della Chastain e di Redmayne, in una storia tuttavia assolutamente inerte, priva di ogni possibile sussulto.
La dimensione di detection è messa completamente in sordina, le responsabilità sono chiare sin dall’inizio, le modalità si intuiscono, i motivi rimangono completamente oscuri.
Il film si concentra sugli ultimi omicidi e sulla cattura, che non hanno peraltro alcuna particolare originalità. The Good Nurse è un film catatonico, chiuso negli interni ospedalieri e illuminato dalla luce blu dei turni di notte.
Non si comprende davvero per quale motivo abbia attirato tutto questo talento, reale o presunto che sia. La sceneggiatura della Wilson-Cairns è persino peggiore delle due precedenti, senza conflitti, senza dramma, senza svolte, senza interesse.
Solo un concentrato di mestizie anodine, che assecondano il solito desiderio di santità di Jessica Chastain, che ormai interpreta solo personaggi edificanti e immediatamente leggibili. Quanto a Redmayne siamo davvero al grado zero: un conto è l’understatement recitativo, ma qui non c’è davvero nulla a cui aggrapparsi nello script per dare sostanza ad un personaggio che pure dovrebbe essere un’incarnazione glaciale del male per il male.
Il film è una linea piatta, senza sussulti vitali. Non mi pare renda giustizia nè alle vittime, rimaste senza nome, nè a coloro che interruppero quella insensata catena di morte.
L’unico elemento che lascia intravvedere l’occhio straniero di Lindholm è il modo con cui è ritratta la sanità americana: è forse in quelle clausole confidenziali, in quei contratti assicurativi, in quella burocrazia del denaro, che si cela il vero orrore sociale, la vera feroce mostruosità. Peccato allora che The Good Nurse non la racconti fino in fondo, preferendo poi deviare nella solita esaltazione eroica del singolo che si sostituisce al sistema, costruendo l’ennesimo santino chastainiano di cui francamente non avevamo bisogno.
E’ sempre più chiaro, ragionando in termini di politica produttiva, che Netflix stia diventando il posto in cui i progetti che non avrebbero mai dovuto ottenere il via libera, diventano film di cui nessuno sentiva la necessità. O la mancanza.