1917

1917 **

Annunciato dalla grancassa dei Golden Globes appena conquistati per il miglior film e la migliore regia e dalle dieci nominations agli Oscar, 1917 prometteva uno sguardo cinematograficamente illuminato sulla Grande Guerra e le sue trincee.

Roger Deakins, uno dei maestri della fotografia per il cinema, aveva deciso con Mendes di girare la storia del film attraverso un unico impossibile, piano sequenza, mascherando tuttavia i tagli presenti, attraverso il montaggio invisibile, consentito dai moderni effetti speciali di transizione, un po’ come accaduto per esempio in Birdman di Inarritu.

Ed è proprio da questo artificio, che cominciano i problemi di 1917, un film che vorrebbe raccontare la missione suicida di due soldati sulla Linea Hindenburg, ma che si risolve in un survival movie, di puro spettacolo meccanico, in cui non c’è mai spazio nè per la storia del caporale Blake e del Caporale Schofield, semplici corpi anonimi, che occupano uno spazio scenico e compiono senza discutere l’incarico affidatogli, nè per la Storia più grande, quella del primo conflitto moderno, nel quale la cooperazione industriale contribuì all’orrore delle operazioni militari con carri armati, aeroplani, mitragliatori, gas lacrimogeni e velenosi, alimentando un logorante scontro di posizione tra le trincee, nel quale il sacrificio umano fu enorme e insensato.

Purtroppo Mendes – che ha scritto la storia di 1917, anche a partire dai racconti del nonno, addetto ai messaggi sul fronte occidentale, e risulta co-autore della sceneggiatura con Krysty Wilson-Cairns – non ha una sola idea sulle ragioni del conflitto, nè sulla crudeltà e l’orrore della guerra, nè sembra interessato a fare dei suoi protagonisti, due personaggi reali, complessi, capaci di suscitare empatia e condivisione nello spettatore, che si trova catapultato al loro fianco, assistendo alle loro imprese senza alcuna reale partecipazione.

La struttura del film, che vorrebbe essere immersivo, sposando un punto di vista all’altezza dei due caporali e non perdendoli mai di vista, come se la macchina da presa fosse un terzo soldato, in viaggio con loro, impedisce tuttavia di creare un vero contesto narrativo al racconto, ostacola la complessità ed elimina qualsiasi distanza, diventando un esercizio di stile del tutto sterile e magniloquente, che mutua le sue forme da uno dei tanti games moderni e che non aiuta mai a comprendere i motivi.

Dopo aver impegnato gli alleati in sanguinosi attacchi, le truppe tedesche sembrano essersi ritirate in una fuga improvvisa, tuttavia si tratta di una trappola, un cavallo di troia, per spingere gli inglesi allo scoperto, mentre dalla nuova Linea Hindenburg, le truppe del Secondo Reich sono pronte ad un nuovo decisivo assalto.

I tedeschi indietreggiando hanno tagliato le linee di comunicazione, così il Generale Erinmore affida ai caporali Black e Schofield l’incarico di attraversare la terra di nessuno, raggiungere la città assediata di Ecoust e poi il bosco di Croisilles, dove le truppe del Secondo Devon, guidate dal colonnello Mackenzie, sono pronte all’assalto al nemico che credono in fuga e che invece ha preparato con dovizia l’inganno.

Il fratello di Blake è tenente nel Secondo Devon, pertanto per lui la missione ha un significato anche personale, oltre a quello di evitare il massacro di 1.600 uomini.

Il film mette in scena, in modo circolare, il viaggio dei due soldati verso il plotone del Secondo Devon.

Mendes ha raccontato di aver preso ispirazione da Apocalypse Now e da Niente di nuovo sul fronte occidentale, per tessere il filo del suo racconto, ma probabilmente aveva in mente anche i film di David Lean, Gli anni spezzati di Peter Weir e soprattutto Dunkirk di Christopher Nolan.

Solo che da questi grandi racconti di guerra ha preso solo l’aspetto formale, lo stile, la rappresentazione grafica del conflitto.

Qualcuno ha scritto con un po’ di cattiveria che Mendes vorrebbe essere Nolan ma non ci riesce mai: è soprattutto l’idea del tempo che sfugge completamente al regista di Skyfall. Se Dunkirk è infatti una straordinaria sinfonia sul tempo, che si muove a velocità diverse, facendo coesistere ciò che è lontano, 1917 non riesce mai davvero a filmare il tempo, limitandosi a illustrare il movimento, la fuga, coreografando perfettamente lo spazio e gli elementi scenici, che vi entrano al momento giusto, per creare nuovi ostacoli alla missione dei due soldati.

Il suo film ha così momenti di grande cinema, dall’uscita dei due protagonisti nella Terra di nessuno, alla caduta dell’aereo tedesco, dall’incubo notturno della città fantasma di Ecoust, sino all’attacco dalle trincee bianche del finale.

Solo che questa indubbia maestria nella messa in scena, questa grande capacità raccontare per grandi quadri, è al servizio di una storia davvero minima, incapace di acquisire senso, al di là dell’ammirazione per lo straordinario lavoro collettivo di ricostruzione, e incapace di risuonare nella coscienza dello spettatore, creando una chiave di lettura o anche solo un semplice legame con il nazionalismo nuovo di questi anni, con la recrudescenza di egoismo e xenofobia, persino con l’uscita del Regno Unito da quel consesso europeo, che proprio dopo la Prima Guerra Mondiale aveva cominciato a muovere i suoi primi timidi passi.

Il film di Mendes non ha alcuna ambizione, neppure quella di raccontarci l’orrore e la follia della guerra, risolvendo ogni cosa in un paio di battute affidate, nel finale, al colonnello Mackenzie, interpretato da Benedict Cumberbatch: too little, too late, direbbero gli inglesi.

O forse è in quel finale sotto il grande albero, che chiude circolarmente il viaggio di Schofield, che dovremmo leggere l’ineluttabilità e l’inutilità della guerra, come un falso movimento?

Mendes, altre volte raffinatissimo psicologo, da American beauty a Revolutionary Road, qui sembra più preoccupato della bella calligrafia, con cui ha deciso di raccontare il suo tour de force, del grande sforzo produttivo e tecnico necessario, piuttosto che dello spessore dei personaggi, del racconto della morte e del sacrificio.

Il suo film si muove con logica videoludica, con la macchina da presa ridotta a soggettiva di un ipotetico avatar dello spettatore, che attraversa i diversi livelli di una prova chiarissima sin dall’inizio.

Lo stesso artificio dell’unico falso piano sequenza – anzi in realtà almeno due, perchè una cesura evidente c’è, quella che consente un’ellisse che trasporta i personaggi dal giorno alla notte – non è scelto da Mendes per favorire una maggiore adesione realistica e neppure per rappresentare l’unità di spazio, tempo e azione, perchè alle due ore del film, corrisponde un’avventura lunga circa ventiquattr’ore. Ma è invece puro strumento, pura performance, che basta a sè stessa ed è del tutto indifferente al racconto, a cui non aggiunge nulla.

Persino i due protagonisti, interpretati dai giovani e relativamente inediti Chapman e MacKay, sono maschere con pochissime sfumature, volti anonimi di un viaggio a tappe forzate. Le differenze tra i due, uno più giovane e coinvolto personalmente dalla missione, l’altro più esperto, disilluso, reduce dal massacro della Somme, sono un semplice punto di partenza, che non diventa mai motivo di conflitto narrativo e che il film risolve poi bruscamente, dopo appena 45 minuti. Ma è giusto non rivelare come.

Cosa resta alla fine di 1917? Ben poco, in realtà, oltre alla grande ambizione di Mendes e al lavoro magistrale dello scenografo Dennis Gassner e di Roger Deakins, capace di usare la luce naturale in modo sensazionale e di organizzare le riprese in modo sin troppo perfetto. Se proprio vogliamo trovare un difetto anche nel sontuoso e inappuntabile apparato tecnico del film, è proprio nella sua implacabile e inverosimile perfezione: non c’è mai uno scarto, un errore, un imprevisto, un raggio di sole che si fa strada tra le nuvole, uno schizzo di fango sull’obiettivo, capace di increspare un quadro sempre troppo cristallino.

Manca il soffio vitale a 1917, mancano la sofferenza, il dolore, il dubbio, la follia, il coraggio e tutto quello che ha reso l’orrore della guerra, l’abisso più sconvolgente dell’esperienza umana.

Inutile.

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