Il primo grande successo di David O. Russell, il controverso regista newyorkese di origini ebraiche e italoamericane, si intitolava Flirting with Disaster: in questo suo ultimo Amsterdam ha davvero cercato di farlo, costruendo un racconto complesso e stratificato, di enorme ambizione, ambientandolo nella New York del 1933 e nell’Europa del 1918 alla fine del primo conflitto mondiale, ma volendo parlare fondamentalmente all’America di oggi che assalta Capitol Hill e manifesta desideri sinistri e reazionari.
Il film tuttavia sembra sfuggirgli costantemente di mano, perdendosi in rivoli, battute, altre storie e altri personaggi, che Russell fatica terribilmente a contenere e a ordinare, dovendosi così affidare troppo spesso alla voce off dei suoi tre protagonisti, ad un lunghissimo flashback che interrompe il primo atto per riportarci indietro nel tempo e ad una lunga serie di spiegazioni che cercando di dire quello che il film invece avrebbe dovuto mostrare.
Qualcuno ha paragonato Amsterdam ad un radiodramma: l’iperbole è evidente, ma non così lontana dalla realtà.
Non aiuta il fatto che non ci sia un solo caratterista in questo film, interpretato, persino nei ruoli più marginali, solo da attori celeberrimi, che rubano costantemente l’occhio e distraggono dall’intreccio principale.
I protagonisti sono tre reduci di guerra: il medico ebreo Burt Berendsen, che i suoceri wasp mandano a morire in guerra nel 1918 e poi cacciano di casa al suo ritorno; l’avvocato di colore Harold Woodsman, che Burt ha protetto durante il conflitto e con cui lavora a New York molti anni dopo; infine l’infermiera Valerie Voze, che si prende cura dei due soldati feriti e poi diventa la loro inseparabile compagna in un breve e felice periodo trascorso ad Amsterdam, dopo la guerra.
Molti anni dopo, nel 1933, Burt viene incaricato da Harold di fare un’autopsia sul corpo del loro amatissimo Generale Bill Meekins, su richiesta della figlia che teme che il padre sia stato assassinato.
Il referto conferma l’avvelenamento, ma quando un uomo misterioso uccide sotto gli occhi di Burt e Harold la figlia del generale, facendo ricadere su di loro la colpa, i due sono costretti alla fuga, per cercare di scagionarsi.
Il destino li riporterà da Valerie, che scoprono essere stata reclusa e drogata dal fratello, un industriale ambiguo e mellifuo.
Un passo dopo l’altro capiranno di essere testimoni involontari di un complotto per spodestare il presidente Roosevelt e instaurare una dittatura militare negli Stati Uniti d’America, così com’è avvenuto nel cuore dell’Europa.
Il film di Russell vorrebbe essere sia un monito inquietante sulle seduzioni del fascismo, ora come allora, sia una grande avventura picaresca di tre spiriti liberi travolti dagli eventi della Storia.
Se il monito tuttavia rimane oscuro e spesso involuto, pur ispirandosi a fatti realmente denunciati al Congresso nel 1933 dal Generale Smedley Butler, l’avventura invece funziona egregiamente soprattutto nel vibrante flashback che ricostruisce l’ultimo anno di guerra e la fine del conflitto.
Russell sembra voler restituire sullo schermo tutta la bellezza incosciente di coloro che sono sopravvissuti alle atrocità delle Argonne e sembrano abbracciare la vita con una forza inconsueta. I tre costruiscono un rapporto unico, in cui amore e amicizia si confondono perchè troppo grande è il desiderio di prendersi tutto, ogni cosa, con una voracità che non ammette più limiti.
Illuminati dalla luce cada e dorata di Lubezki, avvolti dalla sinuosità della macchina da presa Bale, Robbie e Washington sembrano stelle che rischiarano la notte, bruciando di una luce fortissima.
Peccato allora che il film non intenda raccontare solo l’unicità della loro amicizia, la disillusione del tempo perduto, la vita americana che si riprende i sogni ad occhi aperti delle notti di Amsterdam.
E che si dilunghi nelle convulsioni di un altro complotto contro l’America, che sarebbe stato meglio lasciare alla prosa di Philip Roth.
Il film è sfrangiato oscuro in alcuni punti, pedante in altri. Il risultato finale sembra figlio di un montaggio indeciso, spezzato, compromissorio e di una sceneggiatura altrettanto indecifrabile.
Forse lo stesso Russell è stato incapace di dare una forma a troppe suggestioni diverse, a parti eterogenee, che finiscono per sopraffare il film stesso.
Resta la prova maiuscola di una Robbie che soprattutto nel flashback è toccata dalla grazia di un personaggio formidabile.
Non meno centrato sembra Bale, che fa il possibile per dare credibilità ad un ruolo in cui convivono suggestioni e storie sufficienti per almeno un altro paio di film.
Come accade spesso, John David Washington sembra invece la loro spalla, costantemente un passo dietro agli altri due.
Eppure il terzetto funziona egregiamente e, quando sono assieme, il film sembra correre veloce, a mezza strada tra le screwball comedy del periodo e la malinconia di Jules et Jim,, depurata tuttavia di ogni ambiguità sentimentale.
Peccato che poi il film voglia essere anche un pamphlet politico, una satira sociale, una crime story e molto altro ancora.
Lo stuolo dei comprimari è pressoché infinito, dalla coppia malefica Anya Taylor-Joy/Rami Malek al generale tutto d’un pezzo Gil Dillenbeck interpretato da Robert De Niro con quell’attenzione che ormai riserva solo a pochissimi progetti.
Per non parlare dell’anatomo patologo a cui Zoe Saldana presta la sua maliziosa dolcezza e delle spie appassionate di ornitologia Michael Shannon/Mike Myers, che si occupano di dar manforte ai tre protagonisti.
Della fotografia semplicemente sensazionale di Lubezki, che non girava un film da The Revenant, abbiamo già detto, ma non meno formidabili sono i costumi di J.R. Hawbaker e del veterano Albert Wolsky (Manhattan, All That Jazz, Revolutionary Road, Birdman) e le scenografie di Judy Baker (Brokeback Mountain, Carol, American Hustle, Io non sono qui, Pose).
Insomma il problema di questo Amsterdam è la bulimia irrisolta del suo creatore, che alla fine ci ha regalato un film in cui le parti sono infinitamente migliori del tutto.
Il pubblico americano se n’è accorto, disertando le sale.
Un’occasione perduta.