Al loro terzo film in poco più di tre anni, dopo l’esordio limpido e morale di La terra dell’abbastanza e l’acclamato Favolacce, i fratelli d’Innocenzo inciampano in modo piuttosto evidente con questo affrettato America Latina.
Lontano dalla dimensione del conte morale, comune ai due precedenti, il nuovo lavoro cerca di spingersi in territori più decisamente metafisici e identitari, raccontando l’incubo che attende il protagonista, il placido dentista Massimo Sisti, che vive in una villa orrenda nella campagna di Latina.
Il suo lavoro procede senza intoppi, sua moglie e le sue due figlie adolescenti lo attendono nella grande casa a due piani con piscina e una enorme scala esterna, incubo di ogni architetto.
Un solo ottimo amico, Simone, con cui si vede dopo il lavoro, esagerando forse un po’ con l’alcool.
La sua vita cambia radicalmente quando, raggiunto il grande scantinato di casa per cambiare una lampadina, ci scopre una ragazzina segregata e imbavagliata, mentre il pavimento attorno a lei è ricoperto di spazzatura.
Quando prova a toglierle il bavaglio non ottiene che urla belluine e lamenti. Nessuna spiegazione.
Ma chi l’ha portata lì? E perchè?
I suoi sospetti si dirigono prima verso l’amico Simone, pedinato e interrogato.
Quindi addirittura si rivolgono verso le donne di casa sua.
Il film dei D’Innocenzo vorrebbe cercare di suggerire la confusione identitaria del protagonista, che non ricorda più le cose, prende pillole e gocce, beve superalcolici direttamente dalla bottiglia e non sembra più avere il pieno controllo della sua vita.
Al lavoro trema, arriva in ritardo, si sente vittima di un complotto e non riesce a trovare conforto nemmeno nelle mura di casa. La famiglia accondiscendente, che sembra uscita da una pubblicità stucchevole del Mulino Bianco, trama davvero alle sue spalle?
E così mentre l’acqua di un tubo che Massimo ha rotto, riempie l’enorme cantina, giorno dopo giorno, le sue sicurezze si fanno sempre più esili.
Il film però sembra decisamente buttato via, la scrittura è acerba, i personaggi sono solo archetipi e la confusione del protagonista è anche la nostra di spettatori.
L’incubo in cui precipita, nasce probabilmente da lontano, ma nel film sembra repentino e imprevedibile. Si sentono echi del Polanski degli esordi, il regista del surreale e della crudeltà.
I fratelli sembrano alla ricerca di qualcosa che non arriva mai, perchè la soluzione dell’enigma non va certo trovata nel cinema di genere, ma in una dimensione psicotica, che finisce per avere la meglio sui tentativi di razionalizzare l’orrore.
Se lo spunto di partenza può anche apparire interessante e fecondo, costruendo un conflitto narrativo evidente e deflagrante, rispetto al quadro idilliaco in cui sembra vivere il protagonista – circondato tuttavia da un ambiente di inquietante bruttezza – come spesso accade in questi casi, il resto del film non riesce ad essere all’altezza di questo incipit, suggerendo risposte piuttosto scontate, ad interrogativi assai più interessanti.
Non solo, ma i D’Innocenzo sembrano guardare ai loro personaggi con spirito da entomologi, sempre con lo sguardo rivolto dall’alto verso il basso.
Resta solamente il loro grande talento nella costruzione dell’immagine, che pur rimanendo questa volta molto addosso al protagonista, riesce ugualmente a suggerire linee prospettiche spiazzanti, fughe e deviazioni che portano lo sguardo a perdersi, in una situazione di continua incertezza.
E resta la solita straordinaria bravura di Elio Germano, che costruisce progressivamente la caduta nell’ombra del suo Massimo, portandosi sulle spalle tutto il film, che ruota interamente attorno ai suoi dubbi.
Tuttavia a poco servono certe svisate di regia, la doccia ripresa fuori asse e in slow motion o l’accendersi dei rossi e dei verdi negli interni di casa Sisti, ad identificare una dimensione di pericolo che i personaggi vorrebbero costantemente negare.
L’America Latina è quella che sembra occultare nei basement dell’agro pontino lo stesso orrore di certa provincia americana, disumanizzata e affogata in quella stessa stessa bruttezza che i D’Innocenzo condensano nel montaggio iniziale sui titoli di testa.
Tuttavia l’ennesimo viaggio nella torbida periferia italica, morale e ideologica, al terzo film suona già di maniera.
Il bersaglio è chiaro e peraltro non è dissimile da quello già messo al centro del mirino con Favolacce. L’abbiamo compreso, ora occorre però diventare (cinematograficamente) adulti: la rabbia, l’ennui esistenziale, il risentimento incompreso devono trovare un modo di esprimersi in forme cinematograficamente meno superficiali.
E questa volta lo stile non basta.
A meno che il loro cinema non diventi puro stile, astrazione assoluta, architettura visiva: ma questo è un altro discorso.