On the Job: The Missing 8 **1/2
A distanza di otto anni dal primo On the Job, il filippino Erik Matti ritorna sui temi della corruzione politica e della permeabilità tra potere e criminalità, con un sequel che comincia esattamente dov’era terminato il primo episodio, ma spostandosi da Manila a La Paz.
The Missing 8 era stato pensato inizialmente come una web series, poi Matti ha pensato di rilasciarlo interamente, lasciando che la grande ragnatela che ruota attorno a Zio Sisoy, giornalista, speraker radiofonico, asservito ai desideri del potente sindaco locale, Pedring Eusebio, che si vanta di aver ripulito la città dalla criminalità, ma in fondo l’ha sostituita creando un cartello tutto personale, che gestisce dalla sua grande villa.
Quando il socio di Sisoy, Arnel, che dirige l’unico giornale di opposizione scompare misteriosamente con altri sette giornalisti della sua redazione, lo Zio si trova a dover fronteggiare una realtà molto più complessa di quanto aveva immaginato.
Si sente in dovere di onorare Arnel, recuperando la schiena del cronista che era un tempo, conducendo dalle colonne del LPN una battaglia per ritrovare i giornalisti scomparsi.
Nel frattempo deve subire le pressioni del sindaco e del suo staff che vorrebbe influenzare il giornale, arrivando addirittura ad acquistarlo dalla vedova di Arnel.
Sotto traccia si muove la politica nazionale con il generale Pacheco, che muove i fili anche nel primo capitolo, che sta affrontando la candidatura per il senato, mentre il figlio dell’odiato Eusebio, Bernie, decide di correre per il ruolo di vicepresidente.
Come nel primo On the Job il lavoro sporco lo fa un detenuto, Roman, incastrato per un crimine mai commesso e usato dalla polizia di La Paz, come killer a contratto.
L’indagine di Zio Sisoy lo porterà a scoprire il coinvolgimento di Arnel in un ricatto che coinvolge Pacheco, il figlio di Eusebio e un informatore dell’NBI (National Bureau of Investigation).
Il film di Matti è ancora più complesso e ambizioso del precedente, la narrazione fluviale gli consente di imbastire un racconto corale, con almeno tre diverse sottotrame che convergono poi quando Sisoy comprende gli enormi interessi, che scorrono sottotraccia e i metodi criminali, che tutti usano contro gli altri, in una logica da homo homini lupus.
Il più forte non si fa scrupolo di usarla e mentre i corpi scompaiono senza mai riemergere, l’unica possibilità di rimanere vive è quella di manipolare l’informazione, usare i social, sfruttare la propria visibilità per rendersi intoccabili.
La rete delle menzogne e del fango sfrangia i margini della verità. Lo stesso Sisoy comprende di essere uno strumento che gli altri hanno usato finchè gli era comodo.
Uno strumento però sacrificabile.
Il film di Matti è veloce, efficace, costruito per forze concentriche che dalla pluralità convergono su Sisoy. E’ cinema di genere, brutto, sporco e cattivo. E il regista non si fa scrupolo di riempirlo di musica pop.
Le coppie oppositive di On the Job qui lasciano il posto ad un racconto con tanti punti di interesse, che appaiono lontani e poi si scoprono tutti collegati.
La messa in scena urbana lascia spazio ad un film soprattutto di interni, girato tra la redazione del’LPN, quella della radio, la casa di Eusebio e il carcere dove è rinchiuso Roman.
Amarissimo e disilluso, The Missing 8 è un classico racconto antieroico, in cui l’improbabile Sisoy, marionetta di un potere ventriloquo, acquista la propria autonomia, rompe i fili e ritrova una voce autonoma.
La corruzione è una melma che lambisce tutti: politici locali, informazione, potere economico, senatori, polizia e criminali comuni.
Ciascuno è chiamato ad interpretare un ruolo, mentre l’opinione pubblica è manipolata e confusa.
La critica alla politica di Duterte, qui si fa ancor più radicale, mascherata sotto le insegne del film di genere, che Matti conosce e padroneggia senza paura di sporcarsi le mani e con i mezzi limitati di cui dispone, si conferma regista ispirato e popolare.