Un altro mondo

Un altro mondo **1/2

La trilogia che Stéphane Brizé ha dedicato al mondo del lavoro si conclude con Un autre monde, in concorso alla 78ma Mostra di Venezia.

Ancora una volta è Vincent Lindon ad impersonare il protagonista di una storia che cambia il punto di osservazione, pur continuando a raccontare la crudeltà e l’ipocrisia che ruota attorno allo sfruttamento del “capitale umano”.

Ne La legge del mercato, il suo Thierry era un cinquantenne guardia giurata senza occupazione, dopo la delicalizzazione della fabbrica dove aveva lavorato per molti anni, costretto ad un percorso umiliante di formazione, riconversione e adattamento, che lo spinge alla delazione e a mettere in discussione i suoi valori, anche familiari.

Lo ritroviamo nel ruolo di Laurent, sindacalista e portavoce degli altri lavoratori, non meno disperato, determinato e polemico: In guerra racconta la chiusura di uno stabilimento che dava lavoro a oltre mille dipendenti.

Il cerchio si chiude con Un autre monde: Lindon è Philippe direttore dello stabilimento di una multinazionale americana nella provincia francese.

Dopo aver accettato quel ruolo la sua famiglia è andata a rotoli. La moglie lo sta lasciando, insofferente ad una vita in cui l’azienda si è presa ogni spazio possibile.

Una figlia sta a New York, mentre il figlio più piccolo studia economia e commercio, ma sembra soffrire di fragilità psicologiche, che gli studi ipercompetitivi sembrano aver aggravato.

Davanti a lui ci sono gli oltre cinquecento operai e la decisione della capogruppo di tagliare il dieci percento del personale, indiscriminatamente, in ogni stabilimento in tutto il mondo.

Questo però vuol dire mettere in serio pericolo gli altri lavoratori, vuol dire ridurre i margini di sicurezza, vuol dire alla lunga indebolire quelle stesse realtà, fino a spingere la proprietà a scelte ancor più radicali di delocalizzazione.

Philippe e Olivier il suo collaboratore più stretto non riescono a immaginare un paino industriale che possa funzionare con quei licenziamenti.

Philippe, assieme ad altri colleghi, direttori di altri stabilimenti, si impegna a trovare una soluzione alternativa, sembra riuscirci e usando le maniere forti spinge la responsabile francese del gruppo a presentare il suo dossier alla proprietà.

Non funzionerà.

Il film di Brizè chiude sulle stesse note amarissime dei due precedenti dopo essere passato dalla messa in scena di un nuovo conflitto, diverso, ma fondamentalmente sempre uguale: le esigenze degli azionisti, di Wall Street e delle proprietà lontane che ragionano su numeri e risorse umane e quelle di chi si occupa davvero di produrre una ricchezza, che sembra non bastare mai.

Da qualunque punto di vista si veda la questione la distanza tra i due mondi sembra incolmabile. Che si tratti di un lavoratore espulso dal processo produttivo, un manager o un sindacalista che lotta per mantenere il proprio lavoro e quello dei suoi colleghi, la prospettiva non cambia. E’ la distanza del capitale, è l’astrazione della rendita a segnare uno spartiacque vero, non tanto la distinzione tra operai, quadri, dirigenti, disoccupati.

La dimensione umana contro quella immateriale del denaro: è qui che si consuma il vero conflitto servo-padrone, con il costante ricatto morale che il sacrificio di qualcuno oggi, sia il salvagente per molti, almeno sino a domani.

Solo che questo sistema funziona sino ad un certo punto, quando si può agitare sullo sfondo lo spettro di una concorrenza trasversale e transnazionale, che si avvantaggia di condizioni lavorative spesso disumane, lontanissime dal welfare state su cui l’Europa ha eretto la sua diversità nel corso del secondo Novecento e che un pezzo alla volta sembra voler smantellare.

There is no alternative: Brizé non riesce a scardinare davvero lo slogan della Thatcher, diventato il mantra del neoliberismo conservatore, tuttavia attraverso i suoi antieroi sconfitti, cerca di suggerire che una linea etica e invalicabile occorre riprendere a segnarla. Anche a costo del sacrificio personale, in nome di una dignità che non si può comprare con nuova precarietà.

Lindon è come al solito partecipe di un’immedesimazione totale, che si nutre della sua fisicità, del suo sguardo languido, della sua irruenza.

Brizé sceglie anche questa volta un realismo mimetico, un minimalismo fatto di sguardi rubati, di piani d’ascolto mancati, di frammenti e dialoghi che esplicitano la natura dell’incontro e dello scontro.

La precisione della scrittura non lascia margini d’ambiguità, i suoi attori non danno mai l’impressione di recitare nulla, ma di essersi davvero immersi in un microcosmo.

Come mostra nel pranzo dei direttori degli stabilimenti, l’unica dimensione oppositiva possibile è quella personale. Non c’è più alcuna solidarietà, alcuna visione comune: solo tornaconto egoistico a breve termine.

E chi sceglie di suggerire che un’alternativa è invece possibile non può che essere un folle da emarginare: a Wall Street non importa nulla della brillante idea di un manager francese.

Disilluso e resistente.

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