The Master ***1/2
In concorso
Il sesto film di Paul Thomas Anderson è un affascinante studio di caratteri ed una storia di amicizia profonda e controversa, sullo sfondo dell’America del secondo dopoguerra.
Il protagonista è un marine, reduce dalla campagna nel Pacifico, Freddie Quell. Il ritorno a casa non è semplice: come tutti i reduci, reinserirsi in una società piena di regole e di costrizioni è particolarmente impegnativo, ancor di più per un animo sensibile e disturbato come il suo. Freddie fa il fotografo in un grande magazzino, seduce una delle impiegate, ma poi si fa cacciare per aver picchiato un cliente.
Negli anni della leva è diventato un esperto nel confezionare bevande con gli ingredienti più diversi e pericolosi.
Lavora nei campi, fino a che l’intruglio che prepara e che sembra essere delizioso e potente, finisce per avvelenare uno dei suoi compagni.
Costretto ancora alla fuga raggiunge San Francisco: qui si imbarca di nascosto sulla nave usata da Lancaster Dodd e dalla sua famiglia. Dopo aver celebrato il matrimonio della figlia, Lancaster, che tutti chiamano The Master, si dirige a New York, passando per Panama.
Scoperta la presenza a bordo di Freddie ed assaggiato il suo cocktail misterioso, Lancaster lo invita a restare. E’l’inizio di un rapporto complesso, sfuggente: un’amicizia profondissima, forse una storia d’amore, un rapporto paterno e forse anche una relazione di attrazione e repulsione, come quella che si instaura spesso tra mentore ed allievo.
Lancaster si presenta come “uno scrittore, dottore, fisico nucleare, filosofo teoretico, ma soprattutto un uomo” a capo di un culto chiamato The Cause, fondato su un libro già edito e su un secondo in preparazione. Al contrario, l’unico biglietto da visita di Freddie è il suo potentissimo cocktail.
The Master vede in lui una persona profondamente fragile su cui sperimentare le tecniche persuasive descritte nel suo manuale. Ma non è solo questo: Lancaster sembra stranamente attratto da Freddie, che è una sorta di animale in gabbia, incapace di reprimere le sue pulsioni più elementari. Questa visione antropologica dell’uomo moderno è propria quella descritta da Lancaster nei suoi libri: la necessità di sottoporre Freddie al “trattamento” è evidente.
I due si attraggono come poli opposti, ma in fondo riconoscono l’uno nell’altro quello che forse vorrebbero essere.
Nel corso della lunga crociera, The Master usa Freddie come cavia per le sue tecniche sperimentali, lo sottopone ai suoi interrogatori registrati, nei quali il marine è indotto a raccontare il suo passato, gli angoli oscuri della propria vita, in una sorta di talking cure che ha evidentemente elementi psicanalitici, in un contesto che assomiglia però pericolosamente ad una forma di sottile tortura.
Il film non ha una verità da proporre sui culti nati negli anni ’50, nè intende essere un attacco diretto a Scientology, ma certo racconta le origini di una setta, simile a quella di Ron Hubbard, e ne mette alla berlina tecniche e presupposti filosofici, con pochi ma chiarissimi episodi.
E’ un’America bisognosa di credere, in se stessa e negli altri, quella descritta da Anderson, è l’America affranta e perduta della Beat generation naturalmente, senza più padri naturali, ma alla continua ricerca di una guida. Il desiderio di affidarsi ad un maestro, ad un mentore sottolinea tutta la fragilità psicologica del paese uscito dalla guerra con molte ferite, che solo l’ottimismo degli anni ’60 kennediani riuscirà temporaneamente a guarire, almeno sino all’assassinio di Dallas.
Il centro del film è allora tutto nel rapporto tra Lancaster e Freddie: un rapporto che travalica persino le necessità narrative e la fluidità del racconto.
L’uno sembra sorreggere l’altro: The Cause diventa la famiglia di Freddie, che si occupa di convincere gli scettici a modo suo…
Mentre Lancaster trova nell’amico una cavia eccellente e malleabile, che pone costantemente in crisi, con la sua aggressività, il suo metodo improvvisato.
Quando però Freddie si accorge che il culto non è altro che una buffonata, prima messo sull’avviso dall’onesta confessione del figlio di Lancaster, quindi dall’esito infausto del primo congresso di The Cause a Phoenix ed infine dalle parole dell’editore dei libri della setta, il suo mondo improvvisamente esplode in mille pezzi, con tutta la forza distruttiva di cui abbiamo conosciuto la potenza.
Da qui in poi il film rimane come sospeso. I due protagonisti finiscono per ritrovarsi diverse volte, cercando di mettere insieme i pezzi di un rapporto ormai logoro, senza davvero riuscirci.
Freddie insegue un amore di gioventù, ma invano. Nel frattempo The cause prospera in Inghilterra…
Il film di Anderson, che pure è cinematograficamente maestoso e magmatico, soffre di un terzo atto poco convincente, riscattato solo in parte dalla potentissima ed enigmatica sequenza finale. L’illusione è svanita, ciascuno conosce meglio l’altro e si accorge di non poterlo cambiare, nè di poterlo in qualche modo avvicinare.
Anderson, forse troppo affascinato dai suoi protagonisti, punta sempre più in alto: nei suoi personaggi bigger than life si intravvede un’aspirazione massimalista, quasi wellesiana, ed il rapporto tra Lancaster e Freddie ricorda quello tra Arkadin e Van Stratten, ma finisce per essere meno coinvolgente di quanto ci si sarebbe atteso, perchè la storia non sembra assecondare nessuna delle tante possibilità create nel lungo incipit.
Il film è ellittico, sfuggente, non si lascia interpretare facilmente e punta a minare le aspettative create nel lungo silenzio che ha accompagnato la sua travagliata produzione.
The Master è un film che si ammira, che inchioda alla poltrona per la maestosa ricostruzione d’ambiente e per la carica magnetica dei protagonisti.
Per Joaquin Phoenix si tratta del ruolo di una vita. Il suo Freddie Quell è un personaggio che difficilmente si dimentica: silenzioso, ingobbito in abiti troppo stretti, con la bocca che si apre solo dal lato sinistro ed il viso scarnificato e nervoso, sempre sul punto di esplodere.
I suoi duelli verbali con Lancaster rimangono memorabili, così come la sua vulnerabilità ed il suo desiderio d’amore.
Il mimetisimo assoluto lo avvicina al primo Brando, al tormentato Monty Cliff ed agli altri grandi dell’Actor’s Studio degli anni ’50.
Il solo pensiero di averlo perso per i tre anni che ha dedicato al falso documentario sul suo ritiro, I’m still here, lascia sgomenti ed al contempo dà l’idea della dedizione di questo attore scomodo e magnifico.
Al suo fianco, Philip Seymour Hoffman ci regala un’altra interpretazione sopraffina ed piena di ambiguità.
Degna di menzione anche la moglie di Lancaster, interpretata da Amy Adams. Apparentemente sottomessa e marginale, il suo ruolo diventa via via più importante e decisivo, sino all’epilogo glaciale di cui è protagonista.
La fotografia di Mihai Malamaire Jr in 70mm – ma non in cinemascope – è meravigliosamente old style, immersa negli azzurri e nei blu del caldo sole californiano. E dimostra come il fascino dei grandi formati degli anni ’50 sia ancora intatto anche nelle nuove generazioni.
E che la scelta tra digitale, IMAX, pellicola dovrebbe essere sempre lasciata alla sensibilità degli autori, senza costringere questi ultimi a subire l’inevitabile modernismo tecnologico.
La colonna sonora inquietante e dissonante di Jonny Greenberg dei Radiohead, meriterebbe una recensione apposita, per la capacità di contrappuntare le immagini, facendo esplodere le contraddizioni dei protagonisti, attraverso un accompagnamento sempre inatteso, spiazzante, lontanissimo dalla classicità orchestrale hollywoodiana.
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