Steve McQueen è già un artista conosciuto, fotografo e scultore tra i più promettenti, quando – nell’arco di pochi mesi – espone le sue opere alla 52° Biennale e debutta alla regia con Hunger, il racconto della prigionia dell’attivista dell’IRA Bobby Sands nel carcere di Maze: presentato a Cannes ad Un certain Regard, vince la Camera d’Or per la migliore opera prima.
Con il suo secondo film, Shame, impone all’attenzione internazionale il suo alter ego cinematografico, Michael Fassbender, che vince la Coppa Volpi alla Mostra di Venezia e sfiora una nomination agli Oscar, nel ruolo dell’impiegato sessuomane e anaffettivo.
I suoi primi film, pur lontani per ambientazione e temi, condividono una riflessione comune sul corpo e sul martirio della carne, che si lega strettamente ad una messa in scena che alterna l’eleganza rigorosa della camera fissa alla brutalità della macchina a mano. Una messa in scena che è spesso confinata in spazi chiusi – la prigione di Bobby, l’appartamento di Brandon – ma che non disdegna derive iperrealiste, isolando particolari apparentemente inconsueti o momenti in cui il tempo sembra fermarsi di colpo, in piani sequenza interminabili.
I suoi personaggi vivono solo il presente, il passato rimane una parentesi ignota, il futuro è senza certezze.
Nel dirigere la storia di Solomon Northup, un newyorkese di colore, un uomo libero, ingannato e venduto come schiavo a Washington e rimasto in catene per 12 lunghissimi anni, McQueen ritorna sulle sue ossessioni di sempre.
La libertà individuale e le sue costrizioni, il riflesso delle idee e dei principi nel corpo dei suoi personaggi piegati dal dolore, ma soprattutto dall’esercizio del potere.
Solomon è un musicista, padre di famiglia, nella New York di metà Ottocento. Quando moglie e figli partono per un breve viaggio, accetta la proposta di due “gentiluomini” e si trasferisce a Washington con una compagnia circense, suonando nei loro spettacoli.
Nella capitale, i due si mostreranno tutt’altro che disinteressati: fanno ubriacare Solomon e lo vendono a spietati carcerieri, che lo imbarcano per New Orleans, dove verrà comprato, assieme ad altri uomini liberi ingannati e ridotti al silenzio, come schiavo nelle piantagioni.
McQueen comincia in media res: Solomon, ribattezzato “Platt” per celare le sue vere origini, è schiavo da molti anni. Gli viene insegnato come tagliare la canna da zucchero. Nella notte, una donna cerca con lui un’intimità impossibile e proibita.
Eppure il desiderio di raccontare la sua storia, di ricongiungersi alla famiglia lontana non smette di tormentarlo: cerca di usare le more e un bastoncino di legno, per scrivere una lettera, ma poi desiste.
Il racconto si riavvolge quindi da capo, mostrandoci come Solomon sia diventato “Platt”.
Il suo primo padrone, Mr. Ford, ne apprezza l’intraprendenza e l’intelligenza, ma quando Solomon si scontra con l’assai meno liberale supervisore Tibeats, che vede il suo potere messo in discussione, viene ceduto a Mr. Epps, uno schiavista dalla pessima fama, che umilia e sevizia i suoi uomini.
Epps ha una piantagione di cotone. Chi non rispetta le quantità stabilite nella raccolta viene legato e frustato.
Qui Solomon conosce Patsey, una schiava che il padrone e la moglie si contendono nelle loro schermaglie sentimentali: Mr. Epps ne è segretamente attratto e la violenta nella notte, suscitando di giorno le ire della gelosissima moglie Mary, che le sfregia il viso più volte e la sevizia, senza apparente motivo.
Quando un insetto letale assale i campi di cotone di Mr.Epps, quest’ultimo presta i suoi uomini ad un altro proprietario vicino, che apprezza il talento di “Platt” col violino e ne paga le esibizioni.
Il cerchio si chiude e torniamo alla prima scena del film. Ma la lunga odissea di Solomon e Patsey non è ancora finita…
Il film di McQueen si pone nella tradizione più classica del cinema civile: nel racconto esemplare di una singola storia personale si rispecchia il Paese intero, con i suoi errori, la sua violenza, i suoi eroi.
Nello spirito lincolniano, già evocato da Spielberg quest’anno, McQueen si incarica, lui inglese, di ricordare le atrocità di un passato mai troppo lontano, che ritorna ancora oggi, in forme apparentemente meno cruente, nel nostro mondo globalizzato.
E’ un passaggio catartico, ma convenzionale.
12 years a slave non indietreggia di fronte alla messa in scena dell’orrore: le impiccagioni, talvolta prolungate in un’agonia interminabile, le frustate strazianti, la tortura psicologica e quella fisica, usate per piegare ogni volontà.
La prima regola che insegnano a Solomon, a suon di legnate sulla schiena, è quella del silenzio: mai chiedere, mai parlare, mai mostrare di saper leggere o scrivere, mai pronunciare il proprio nome. E’ la rimozione completa della propria identità e della propria umanità: solo così è possibile giustificare la schiavitù di un uomo rispetto all’altro.
E non si tratta di contrapporre neri a bianchi – McQueen in questo è molto abile – quanto più semplicemente di mettere in scena un potere che pretende inferiorità e sottomissione e le impone con la forza della violenza: una condizione che, seppur in modi assai meno cruenti e plateali, non è del tutto aliena anche alla nostra società.
Non a caso sceglie un protagonista alieno rispetto al contesto storico e sociale del film: Solomon è un nero libero del nord, istruito e pienamente indipendente, che non si integrerà mai con gli altri schiavi. Persino la sua musica è diversa: Solomon è felice solo quando suona il violino per i bianchi, mentre canta controvoglia gli spirituals e la musica delle piantagioni, amata dagli altri schiavi.
Il protagonista guarda con sufficienza anche le bambole di mais di Lupita, segno di una cultura primitiva, inferiore.
Non c’è nessuna condivisione vera, nessun interesse per la storia altrui, ma un viaggio profondamente individualista, di chi si sente diverso e non comprende sino in fondo la natura profonda del male, ma solo l’ingiustizia della propria condizione e cerca di sfuggirvi.
Nessuna solidarietà è possibile, neppure nel momento della liberazione, avvenuta per mano di un bianco, naturalmente…
McQueen che è un quarantenne londinese e non ha esperienza diretta dello schiavismo sudista, nè della segregazione razziale, ha la distanza giusta per mettere in scena la storia di Solomon e per farla propria Nell’adesione al racconto, scritto dal vero Northup un secolo e mezzo fa, sembra ritrovare ancora una volta i temi forti che innervano il suo cinema: la libertà individuale, il condizionamento politico e sociale, il conformismo e la violenza come strumenti capaci di piegare il corpo, ma non le idee.
Ed allora questo 12 years a slave sembra essere speculare al precedente Shame: mentre il primo mette in scena la flagellazione del corpo, l’umiliazione e la violenza subìte, il secondo mostra il desiderio compulsivo di affermare il proprio potere, anche attraverso il sesso, svuotato di ogni comprensione e finalizzato ad ottenere un piacere puramente fisico, momentaneo, sempre meno appagante.
Certo siamo lontani da Hunger: la forza iconoclasta del suo cinema è quasi completamente scomparsa, qui la messa in scena è controllatissima, il racconto ha un respiro molto più convenzionale – persino nella durata, che supera abbondantemente le due ore – ed anche le immagini più cruente non raggiungono la sgradevolezza disturbante dei suoi precedenti.
C’è un’unica scena in cui McQueen si ricorda di essere un provocatore ed è quella dell’impiccagione. In quell’interminabile giornata, in cui il protagonista rimane appeso alla fune, in punta di piedi, tra la vita e la morte, c’è già tutto il film, racchiuso nel contrasto tra il primo piano di Solomon, che cerca un equilibrio impossibile nel fango, ed il mondo della piantagione, che alle sue spalle sembra non accorgersi di lui. I bambini continuano a giocare, qualcuno lo guarda e poi continua il suo lavoro, persino la moglie del padrone lo osserva, ma non fa nulla. In questi tre minuti di cinema straordinario è condensato tutto quello che in due ore e mezza McQueen si dilungherà a spiegare: la paura e l’indifferenza, la solidarietà impossibile e la pietà attonita, il potere assoluto del padrone. Peccato che questa scena così centrale rimanga come isolata, in un contesto invece troppo teso a dimostrare, più che a raccontare.
McQueen affolla il film di personaggi esemplari, capaci ciascuno di rappresentare un punto di vista sulla schiavitù: c’è il padrone paternalista e quello indifferente, quello sadico e quello più liberale, quello che pensa solo al suo guadagno e quello che non disdegna di trarre un piacere assai più fisico dal suo potere.
L’ansia di voler dire tutto ed in modo definitivo, questa volta ha un po’ tradito il racconto.
Nel ricchissimo cast che McQueen ha radunato per raccontare 12 years a slave si erge Lupita Nyong’o, nel ruolo di Patsey, incapace di sottrarsi al suo destino tragico. Con i capelli cortissimi ed il fisico minuto, viene travolta dalla battaglia combattuta tra il padrone e la moglie: per loro non è che un oggetto da scagliarsi addosso senza pietà e senza ritegno.
Il suo personaggio è però anche quello più ambiguo rispetto all’etica della messa in scena. Molti hanno visto nel suo sguardo esasperato e straziato dalle frustate, il momento più “osceno” e voyeristico del film di McQueen.
Contraltare del personaggio di Patsey è l’aguzzino Epps, interpretato da Michael Fassbender, che si ritaglia un personaggio stretto tra paura e desiderio, potere e impotenza. Un altro ruolo indimenticabile e ripugnante, nella sua mediocrità.
Chiwetel Ejiofor è un Solomon travolto dall’inganno ed incapace di rassegnarsi, ma deciso a sopravvivere, nonostante l’incredulità iniziale. Il suo ruolo è però piuttosto debole e confuso: nei panni dell’eroe sfortunato e senza colpa, sembra spesso assistere ad una storia che non è davvero la sua e le scelte di McQueen non lo aiutano molto a trovare espressioni e toni adeguati.
Anche i ruoli più piccoli e marginali sono stati assegnati ad attori di primissimo livello come Paul Dano, Benedict Cumbebatch, Paul Giamatti, Michael K.Williams, Sara Paulson, Scoot McNairy, Garrett Dillahunt, Alfre Woodard, Quvenzhané Wallis e Brad Pitt: nessuno voleva mancare, in un film che ha l’ambizione di scrivere una pagina nuova nella lunga tradizione che da Nascita di una nazione e Intolerance porta sino a Django Unchained, anche se l’effetto-cameo è un po’ stucchevole, alla lunga.
La fotografia di Sean Bobbitt restituisce i colori del sud, il bianco della luce chiara e del cotone, il verde delle canne, il marrone del fango e della terra.
Hans Zimmer, di solito impegnato in blockbuster tonitruanti, questa volta compone una colonna sonora efficacissima, di grande suggestione, straniante e sinistra nell’uso degli ottoni e degli archi, ma priva di retorica.
12 years a slave aspira alla classicità, sin dalla sua uscita in sala: vorrebbe essere canonizzato, forse troppo in fretta.
Ha il passo potente e fermo, le buone intenzioni ed il finale edificante, che tuttavia non risolve: un film che dovrebbe raccontare l’emancipazione, finisce paradossalmente per mettere in scena l’ennesimo ritorno della compassionevole retorica hollywoodiana.
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