Shame ***
Steve McQueen regista e videoartista americano, impostosi con Hunger a Cannes tre anni fa, vincendo la Camera d’or per il miglior esordio, torna a dirigere Michael Fassbender in un nuovo viaggio fisico, affascinante e tragico, al tempo stesso.
Se nella sua opera prima, il protagonista era un terrorista dell’IRA imprigionato dal governo inglese, Bobby Sands, il quale usava il proprio corpo, per contestare la brutalità del regime carcerario ed i soprusi delle guardie, qui Brandon, giovane impiegato newyorkese, lo usa per rinchiudere le ossessioni di un passato che ritorna e lo manda a fondo.
Non è un caso che Brandon e Bobby siano interpretati da quello che appare con l’alter ego cinematografico di McQueen: Michael Fassbender, capace di usare la propria dirompente fisicità ed imponendosi trasformazioni dolorose e spaventose come forse solo Bale ed il giovane De Niro prima di lui, lasciandosi travolgere dal personaggio, per incarnarlo nel modo più letterale.
Brandon è un giovane impiegato di successo, trentenne e campione del sesso occasionale, che consuma con partner di una notte, con prostitute, online o in ufficio, spesso anche da solo, nei bagni della società per cui lavora.
Non ha la forza di impegnarsi con nessuna, il suo piacere non è nemmeno nella conquista, come per il seduttore di Kierkegaard: è solo nell’atto fisico, nella ripetizione compulsiva della performance sessuale, che trova momentaneo appagamento.
Almeno sino a quando arriva a trovarlo a New York la sorella, Sissy, interpretata da Carey Mulligan, che ha velleità di cantante e si installa nel suo perfetto appartamento ikea, sconvolgendone la routine e l’ordine faticosamente raggiunto.
Lei non sembra molto diversa dal fratello: si porta subito a letto David, il capo di Brandon, e vive una vita sentimentale fuori equilibrio.
Come dice ad un certo punto, nel film: noi non siamo cattivi, veniamo da un posto cattivo.
Su questo il film è reticente. Non sapremo mai cosa lega davvero Sissy e Brandon, oltre al sangue. Il passato rimane nascosto ai nostri occhi.
A McQueen interessa solo il presente, il qui ed ora, evita di raccontare chi erano e da dove vengono Brandon e Sissy. C’è un passato doloroso, oscuro, forse violento, come testimoniano le cicatrici sui polsi di Sissy, ma non sapremo di più.
Ed anche il futuro non è molto diverso dal presente: come ci mostra la scena in metropolitana, il cerchio si richiude e tutto riparte da capo.
Vediamo i due fratelli chiusi nella loro solitudine, nella loro incapacità a relazionarsi con gli altri, se non attraverso il linguaggio del corpo e del sesso.
Ma non basta più neanche quello: Brandon si blocca, Sissy fa anche peggio.
Non siamo più nell’appartamento di Rue Jules Verne della Parigi del ’72, questa è la New York livida e glaciale del terzo millennio, che sembra accogliere tutti, ma che non ama nessuno. Ed il sesso ha smesso di essere una forma di comunicazione, ridotto a pura meccanica di istinti primordiali.
E’ una storia di desideri terribilmente terreni quella di McQueen, che non pretende di giudicare i suoi personaggi, ma lascia che siano loro ad imporsi sul film, in un racconto il più possibile spoglio di riferimenti univoci.
Forse l’ambiguità di due personaggi, senza rete sull’abisso alle loro fragilità può lasciare interdetti: chissà che dietro Brandon e Sissy non ci siano anche le nostre fragilità, i nostri bisogni, le esperienze della nostra vita.
Il film sembra adagiarsi su un finale più convenzionale, ad effetto. E’ complessivamente discontinuo, affidandosi fin troppo alla bravura dei due interpreti. Come nella sequenza più straordinaria del film, quella in cui Sissy canta l’immortale New York New York di Kander & Ebb, spogliandola di ogni stucchevole orpello e di ogni retorica.
Una conferma del talento di McQueen e dei suoi protagonisti, forse i migliori della loro generazione.
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