Indiana Jones e il quadrante del destino **
Non c’è più il logo della Paramount che si anima, ad aprire l’ultimo, quinto capitolo delle avventure di Indiana Jones, ma il castello fatato della Disney, che festeggia il suo centenario.
Basterebbe solo questo a mettere sull’avviso lo spettatore più fedele, quello per cui Il quadrante del destino – in fondo – è stato pensato.
Le musiche di Williams poi fortunatamente ci catapultano nell’Europa dilaniata dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, in cui l’archeologo avventuriero si trova ancora una volta a combattere i nazisti, per recuperare la lancia sacra di Longino, quella con cui fu trafitto Gesù sulla Croce.
La lancia si rivela un banale falso, ma Indiana e l’amico inglese Basil Shaw sottraggono al fisico tedesco Jurgen Voller, in una lunga scena su un treno lanciato nella notte, la metà del quadrante di Archimede, un meccanismo che, secondo la leggenda, può creare fratture nello spazio-tempo.
Sono passati oltre vent’anni e il Professor Jones dopo una lunga carriera all’Hunter College di NY va in pensione, nei giorni che precedono la spedizione sulla luna. Alla guida di quel progetto aeronautico un fisico tedesco, che non ha smesso di inseguire quel quadrante, sottrattogli alla fine della guerra.
Helena, la figlia di Shaw, sa che il padre l’ha consegnato a Indiana Jones, dopo averne studiato il mito per tutta la vita.
Solo che sulle tracce di Helena ci sono anche Voller i suoi ascari.
Un inseguimento per le strade di New York, in mezzo alla parata per l’allunaggio, un altro a Tangeri, a bordo di un tuc tuc, quindi in Grecia, nelle profondità del mediterraneo, per recuperare la chiave di lettura lasciata da Archimede e infine a Siracusa, dove il matematico era vissuto e poi morto.
La formula ideata da Spielberg e Lucas con in testa i serial d’avventure divorati da ragazzi è sempre la stessa, compreso l’elemento sovrannaturale che fa capolino nel finale, questa volta in modo più centrato che nel precedente e dimenticato Il regno del teschio di Cristallo.
Il film diretto da Mangold, dopo la rinuncia di Spielberg, e scritto dal regista con i fratelli Butterworth, dopo infinite versioni a partire dal lavoro di David Koepp, lascia la sensazione costante del falso d’autore.
Un po’ come quella lancia di Longino che Indy insegue all’inizio, rivelatasi poi una banale copia, Il quadrante del Destino sembra avere tutti gli elementi della formula originale, ma il risultato è artificioso, innaturale.
E non tanto e non solo perchè Harrison Ford è ormai decisamente fuori parte, nel ruolo dell’avventuriero spericolato, ma perchè tutto sembra muoversi con logiche lontane da quell’artigianato sapiente e che aveva forgiato il primo capitolo. E manca soprattutto la gioia entusiastica, l’eccitazione fanciullesca che animava i primi tre episodi.
Fin dall’inizio, l’intervento della CGI a ringiovanire il volto del nostro eroe nel lungo prologo ambientato negli anni ’40, segna subito una distanza. La sequenza è probabilmente la migliore dell’intero film, ben orchestrata, sostenuta dalle marce di Williams con un brio innegabile, eppure gli effetti piuttosto dozzinali, per questo livello produttivo, attenuano subito le aspettative.
Lo stesso personaggio di Helena, interpretato da Phoebe Waller-Bridge con una certa verve e con battute che sembra sempre essersi scritta da sola, è un puro strumento narrativo e non si comprende mai davvero quali siano i suoi motivi. Impossibile il coinvolgimento sentimentale con Indy, funziona poco anche come spalla: insomma siamo lontani da Kate Capeshaw e Karen Allen, ma anche dal doppio gioco di Allison Doody ne L’ultima crociata. Lo stesso villain interpretato da Mikkelsen è probabilmente il più modesto dei cinque, davvero opaco nella sua caratterizzazione.
Le scene d’azione sono girate in modo competente ma senza ispirazione, sono sempre troppo lunghe e senza sorprese, occupando la parte centrale del film che avrebbe dovuto essere più svelta e funzionale. Anche perchè il meglio il film se lo gioca nel prologo e nell’epilogo: il mcguffin che muove l’azione assomiglia a quelli escogitati negli altri capitoli, consentendo persino un finale piuttosto sorprendente, anche se decisamente bizzarro.
Curiosamente una delle idee migliori della sceneggiatura è quella che giustifica l’uscita di scena di Mutt Williams, il figlio del Professor Jones nel quarto capitolo. Il film ci torna un paio di volte, strappando anche qualche momento di commozione, ma anche qui c’è qualcosa che suona falso e manipolatorio: una scelta meramente produttiva e l’ostracismo di Hollywood per l’irregolare LaBeouf trasformati in un’uscita di scena toccante.
Il problema di fondo dell’infinita serie di sequel, reboot, remake, su cui Hollywood ha costruito la sua produzione mainstream e la Disney ha elevato a sua strategia unica è che spesso vampirescamente rubano l’anima a personaggi e storie iconiche a cui il pubblico è affezionato, senza restituire nulla in cambio e senza aggiungere nuova aura o nuovi livelli d’interpretazione.
Dal regista di Logan ci saremmo aspettati una riflessione diversa e un po’ meno superficiale sulla vecchiaia dell’eroe e sull’avvicinarsi della fine: qui invece non c’è sostanzialmente nulla. Anzi fin nel prologo, la decadenza inevitabile di Indy viene costantemente negata e l’avventura comincia paradossalmente proprio il giorno della sua pensione.
Contrariamente a quanto è accaduto sullo schermo ad altri attori longevi come Eastwood o come lo stesso Cruise, Ford sembra essersi negato ogni spunto metanarrativo. Continua a fare le stesse cose di sempre, in Star Wars come in Indiana Jones, limitandosi a strizzare l’occhio al suo pubblico di sempre.
Quest’ultimo film è in fondo un prodotto professionale, costruito in modo dignitoso, che tuttavia non sfugge al problema: l’archeologo amatissimo ha già vissuto più avventure di quelle che lo spettatore possa ricordare davvero e questa non sembra destinata a trovare il suo spazio, contribuendo invece a diluire l’eredità cinematografica del personaggio, per qualche dollaro in più.
L’effetto nostalgia, il veleno più potente della nostra contemporaneità, si è insinuato ancora una volta cercando di corrompere un altro pezzo del nostro immaginario più prezioso, già molestato dal film di quindici anni fa.
Resistetegli.
Quello che troverete sullo schermo è modesto e superfluo.