Air – La storia del grande salto

Air – La storia del grande salto ***1/2

“Una scarpa è solo una scarpa finchè mio figlio non se la mette”

Air, il nuovo film di Ben Affleck, che rinverdisce il sodalizio artistico e personale con Matt Damon, cominciato con Will Hunting venticinque anni fa e ora consacrato nella società Artists Equity, è molte cose assieme e quasi tutte indovinate.

E’ innanzitutto una storia imprenditoriale di successo, che ruota attorno alla piccola società di scarpe da corsa, nata dalla passione visionaria di Phil Knight, che deve confrontarsi con il mercato del basket, che sta per esplodere, al seguito dei campioni degli anni ’80.

E’ poi una storia tipicamente americana in cui l’intuizione ostinata, determinata e un po’ avventurosa del singolo, in questo caso il consulente Sonny Vaccaro, spinge il capitale a mettersi in gioco senza rete, come in una puntata a Las Vegas. Quell’intuizione è però contagiosa e sarà il gioco di squadra a costruire le condizioni necessarie al suo successo.

C’è poi ovviamente la grande questione dello sport professionistico come ascensore sociale, che consente ad una famiglia ordinaria di afroamericani del North Carolina di sfidare le grandi società multinazionali, costruendo un impero grazie al proprio talento.

Air è una storia tipicamente anni ’80, immersa in quella cultura, quella che il film ci mostra nei suoi formidabili titoli di testa, che sulle note di Money for Nothing sovrappongono le immagini di quegli anni ai successi dell’azienda e alla sua faticosa ascesa in un mercato dominato da Adidas, Puma e Converse.

Infine Air è il film di Ben e Matt, una delle più belle storie personali della Hollywood contemporanea, che corona un’amicizia di lunghissima data, che ora rinasce in forma imprenditoriale, con un film che non potrebbe essere più emblematico.

Nel 1984 la Nike, che è nota soprattutto per le sue scarpe da corsa, detiene solo il 17% del mercato del basket. La ricerca di talenti a cui affidare l’immagine del suo brand non così popolare tra i consumatori afroamericani, si scontra con i colossi che hanno budget più elevati o una tradizione consolidata nella pallacanestro.

Sonny Vaccaro, che è un talent scout assunto dal CEO Phil Knight per scovare i migliori giocatori del paese, ha l’intuizione giusta: bisogna mettere tutto il budget annuale della società su un solo giocatore, il rookie Michael Jordan, una guardia scelta dai Chicago Bulls, che due anni prima aveva vinto il titolo universitario da matricola.

C’è un problema però. Sonny deve convincere non solo Knight e il suo team di questa strategia, ma anche Jordan e i suoi genitori, che non hanno nessuna intenzione di legarsi alla Nike, avendo ricevuto offerte lusinghiere dagli altri colossi. L’agente del giocatore non vuole neppure fissare un incontro con loro.

Sonny decide così di seguire il suo istinto e contro ogni regola si dirige in North Carolina, presentandosi a casa dei Jordan per parlare direttamente con Deloris, la madre e consigliera del giovane talento.

Il film è stato scritto da Alex Convery come spec script nel 2021, dopo aver visto The Last Dance, il celeberrimo documentario sui Chicago Bulls di Michael Jordan. Finito immediatamente nella Black List di quell’anno, è stato  acquistato da Amazon, che convince Affleck e Damon a interpretarlo.

I risultati ottimi dei test screenings convincono poi Amazon a farlo uscire a cinema in tutto il mondo, con una lunga finestra di esclusiva e in partnership con Warner Bros.

Air funziona perfettamente da ogni possibile angolo visuale. E’ uno di quei film che hanno in sè una dimensione di classicità che li rende inattaccabili ed essendo un film soprattutto di parola, la qualità degli interpreti è l’elemento determinante.

Matt Damon, ingrassato e imbolsito, è un Sonny Vaccaro che sembra sempre avere uno spettro di lucida follia negli occhi. La sua determinazione sfida il senso comune: messo con le spalle al muro da una strategia che non sta funzionando, decide di rovesciare il tavolo e fare di testa sua.

Interpretando Phil Knight, Affleck si ritaglia il ruolo del guru che ha costruito un impero dal nulla, ma ora sembra accontentarsi delle frasi motivazionali scritte sui muri e di una filosofia zen, che non prevede più la scintilla del rischio.

A Jason Bateman e Chris Tucker il copione regala due personaggi formidabili, due manager della Nike, uno nel campo del maketing, l’altro ex giocatore e presenza rassicurante e d’ispirazione per i talenti afroamericani, che contribuiscono al successo dell’operazione, fidandosi dell’illuminazione di Vaccaro.

Non meno decisiva Viola Davis nel ruolo della madre: l’idea arriva direttamente da Michael Jordan, contattato da Affleck, prima delle riprese. E non è stata una cattiva idea, perchè nella lunga scena al telefono in cui i ruoli tra Vaccaro e la signora Jordan si invertono, tira fuori i suoi proverbiali artigli, con una determinazione calma che non ammette rifiuti: un piccolo ruolo da Oscar, insomma.

Una storia a sè meriterebbe il lavoro di Peter Moore, il designer che creò materialmente le rivoluzionarie Air Jordan I, raccontata nel film con la stessa elettrizzante efficacia della ricerca del Sacro Graal.

Tuttavia in Air, dentro e fuori dal film, è il gioco di squadra che funziona alla grande: dietro all’intuizione di Convery e del duo Damon-Affleck, c’è una schiera di collaboratori di primissimo ordine, dalla fotografia calda e pastosa di Robert Richardson, al montaggio del veterano William Goldenberg, fino alla colonna sonora in cui si alternano senza sosta le hit di quegli anni.

Ma come riconosce giustamente Niola nel suo pezzo per Wired, un posto speciale tocca a Born in the USA di Bruce Springsteen. Ne parla il personaggio di Jason Bateman, raccontando a Sonny di come l’entusiasmo patriottico e la positività della musica con i suoi sintetizzatori martellanti, nasconda in realtà un pezzo molto più ambiguo, il grido disperato di un reduce incapace di re-inserirsi nell’America reaganiana.

Air in fondo è anche questo: ci ubriaca con la formidabile storia imprenditoriale delle Air Jordan, per raccontarci non solo lo spirito di quel tempo, quello dell’apice del capitalismo “american way”, con la sua fiducia sconsiderata nella volontà di affermarsi, ma come questo ha cambiato radicalmente l’ingaggio tra atleti e sponsor, il mercato stesso delle sneakers, il rapporto col successo e con uno dei suoi segreti meno nascosti: il confronto tra la fiducia concessa e la capacità di convincere.

Nel film di Affleck quasi non c’è altro: uomini e donne – soprattutto uomini – che cercano di convincere gli altri, che cercano di ottenere fiducia. Con le parole innanzitutto, con la suggestione delle immagini, con l’appello al proprio io, con la disponibilità a mettere tutto sul piatto, ribaltando le regole consolidate. L’unico vero limite del film è che tutti sembrano avere una visione sin troppo profetica del futuro: tutti sanno che Michael diventerà un campione, che vincerà ogni trofeo possibile, che sarà un leader per l’intero movimento NBA. Forse un po’ troppo da immaginare nel 1984, quando il ragazzo non aveva ancora giocato una sola partita tra i professionisti. Questo purtroppo smorza un po’ anche la tensione della scommessa. Ma d’altronde ogni spettatore conosce l’esito di questa storia: sarebbe stato inevitabile.

Come nel migliore cinema americano popolare, in Air tutto funziona come in un orologio al quarzo e dietro ai volti comuni dei suoi attori, possiamo ritrovare un pezzo di noi stessi. Non è un caso allora se il divino Michael non si veda mai nel film: con lui ogni identificazione sarebbe impossibile, quello è un altro livello, irraggiungibile quasi per chiunque. E il film giustamente lo consegna alle sole immagini di repertorio del finale, senza omettere le pagine più oscure della sua storia, sulle note – inevitabili a quel punto – del pezzo prima evocato in modo così competente.

Born in the USA.

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