Slow Horses, possiamo tradurlo con il termine ronzini, brocchi. Nel linguaggio vivace e tagliente dei servizi segreti britannici, il celebre MI5, i ronzini sono gli agenti abbandonati nel Pantano, la Slough House, un dipartimento allocato in una struttura periferica, a cui gli agenti vengono destinati per punizione, a causa di qualche grave inefficienza. Qui scontano la loro pena, immersi in scartoffie senza alcuno scopo se non quello di spingerli alle dimissioni, controllati dall’occhio, tutt’altro che vigile, almeno apparentemente, di Jackson Lamb. Lamb è un agente storico dell’MI5, ma ora passa il tempo con i piedi sulla scrivania o sdraiato sul divano, mettendo in mostra i suoi calzini bucati e bevendo, tra una sigaretta e l’altra, liquori torbati. Quando si alza, in genere lo fa per scoreggiare. Lamb non ha alcuno scopo nella vita professionale (che sembra del resto corrisponde per lui alla vita tout court) a parte quello di tenere sotto controllo i suoi ronzini. Poi, una notte, un gruppo di estrema destra nazionalista, i “Figli di Albione” rapisce un giovane musulmano, Hassan Ahmed (Antonio Aakeel) minacciando di decapitarlo all’alba del giorno successivo in diretta streaming. In realtà tra i rapitori c’è un agente dell’MI5 in incognito, inviato in missione dalla ‘seconda scrivania’, ovvero dalla potente vice capo Diana Taverner (Kristin Scott Thomas). Qualcosa però nel piano va storto, l’agente infiltrato viene scoperto e ucciso. Il gruppo di Lamb sembra agli occhi della donna il perfetto capro espiatorio su cui far ricadere la colpa del fallimento dell’operazione. Un’idea che però non sembra andar giù ai ronzini, a cui resta una sola speranza per provare la propria innocenza: trovare il gruppo nazionalista e salvare il giovane pakistano prima che venga ucciso.
Slow Horses è una serie compatta, essenziale, senza divagazioni. Da un punto di vista narratologico potremmo dire che è tutta plot oriented. A far muovere la narrazione è cioè l’indagine: sono gli avvenimenti al centro della scena, più che i personaggi o le loro emozioni. Negli ultimi anni la distinzione tra produzioni plot oriented e character oriented ci è sembrata meno marcata, in molti casi sfocata e quasi impercettibile, come ad esempio in Better Call Saul. Slow Horses non lascia dubbi e sceglie di puntare tutto su di un ritmo elevato, che forse solo nel primo episodio indulge ai tempi più dilatati a cui la serialità degli ultimi anni ci ha abituato. In ogni caso questo non vuol dire sacrificare i personaggi: la loro caratterizzazione infatti si approfondisce con il proseguimento della narrazione, ciascuno con i propri limiti e le proprie qualità e con un crescendo di alchimia e di spirito di squadra che peraltro non sembra interessare a Lamb. Gary Oldman (Bram Stoker’s Dracula, L’ora più buia) si è calato perfettamente nei panni del repellente capo, a cui sembra non importare nulla dei suoi agenti, almeno finché qualcuno non cerca di incastrarli. E’ difficile non affezionarsi a lui, così come a tutti i ronzini, relegati in questo dipartimento periferico, senza prospettive, con l’unico obiettivo di sopravvivere a se stessi e alla burocrazia che li circonda. La loro riscossa è una declinazione, collettiva e irresistibile, della rivincita dell’antieroe sulla società contemporanea, della denuncia della corruzione e della piccolezza di chi detiene ruoli di potere e di come le narrazioni diffuse da chi comanda siano in realtà una visione distorta e manipolata degli accadimenti reali. Quest’ultimo aspetto è particolarmente interessante in questo periodo storico e, sebbene da sempre presente nel genere, acquista un peso diverso perché descrive una strumentalità che non è nell’interesse collettivo, dello Stato o dell’Agenzia, ma esclusivamente del singolo e della sua carriera. Si mente non per dovere o necessità, ma per sete di potere. Una logica a cui i ronzini oppongono un’eroica resistenza, come vedremo nell’episodio finale, Follies. Con il passare degli episodi impariamo a conoscere meglio questo gruppo di improbabili agenti: Cartwright (Jack Lowden), l’idealista nipote di un agente MI5 in pensione, incastrato per un presunto errore nell’esercitazione antiterroristica con cui si apre la stagione, Roddy Ho (Christopher Chung), giovane informatico, geniale quanto egotico; Min Harper (Dustin Demri-Burns) innamorato della collega Louisa (Rosalind Eleazar); Sid Baker (Olivia Cooke), che ha il compito di controllare Cartwright, ma che finisce per stringere con lui un rapporto di amicizia; Catherine Standish (Saskia Reeves), l’agente più anziano del gruppo che, superato un passato segnato da depressione e alcolismo, acquisisce progressivamente spazio nella narrazione, fino al finale di stagione in cui giocherà un ruolo importante. Di tutti, l’unico vero loser resta forse Struan Loy (Paul Higgins), disposto a tradire il gruppo pur di non far sapere alla famiglia che è stato trasferito al Pantano. Un tradimento preparato con cura dalla narrazione: è infatti il collega che tutti cercano di evitare, quello degli inviti al pub che cadono sistematicamente nel vuoto.
La serie è stata ideata dal comico e sceneggiatore inglese Will Smith (Veep) che ha solo il nome in comune con l’attore afroamericano recentemente premiato con l’Oscar. I trascorsi di Smith come stand-up comedian spiegano non solo i dialoghi briosi e l’introduzione di uno spettacolo dal vivo in un locale, ma anche la scelta di presentare il giovane musulmano rapito come un autore comico troppo timido per portare sul palco quello che scrive. Nonostante una carriera lunga e ricca di soddisfazioni, tra cui un Oscar per l’interpretazione di Winston Churcill nel film L’ora più buia[1], per Gary Oldman questo è stato il primo ruolo sul piccolo schermo. Una scommessa vinta, con una performance memorabile. Anche Mick Jagger ha composto per la prima volta un brano per la Tv, ottenendo un notevole successo, a dimostrazione ulteriore di quanto le dinamiche distributive tendano a stringere sinergie tra musica e serie TV. La sigla peraltro è un elemento identitario rilevante per trasmettere da subito allo spettatore la tonalità allo show. Il regista James Hawes (in passato ha collaborato a Black Mirror, Penny Dreadful, The Alienist) riassume così questa simbiosi tra musica e immagini: “Il testo e la performance di Mick hanno totalmente inchiodato l’atmosfera di Slow Horses, con tutto l’umorismo e la spavalderia che avevo sognato”[2]. Nella serie Londra è immersa in una straordinaria atmosfera malinconica, con colori freddi e un senso di umidità che ti penetra nelle ossa: la città è viva, estremamente reale e concreta. L’idea è che quello che viene rappresentato “possa avvenire dietro l’angolo del tuo quartiere o sulla soglia di casa tua” come ha dichiarato il regista in un’intervista[3]. Lo spettatore non fatica a immedesimarsi con questi agenti segreti calati nella quotidianità, che prendono l’autobus e che si fermano al pub del quartiere prima di tornare a casa, dopo il lavoro. Sono così vicini che li puoi toccare, non solo per il senso di frustrazione e per la voglia di qualcosa di più nella loro vita quotidiana, ma anche per l’efficace radicamento britannico. I dialoghi sono essenziali, senza concessioni al politically correct o a facili deviazioni esistenziali. Nessuno fa più del necessario e questo garantisce al racconto di viaggiare veloce, tenendo lo spettatore sempre teso, con climax in chiusura di ogni episodio che spingono a proseguire nella visione, fino all’episodio finale.
Il sapiente mix tra i fan di Jagger e gli appassionati dei libri di Mick Herron, da cui è stata tratta la serie, ha rappresentato una base di fandom tutt’altro che banale per la promozione della serie. Certo il confronto con i libri, piuttosto conosciuti e popolari nel mondo anglosassone ed editi in Italia da Feltrinelli solo negli ultimi anni, avrebbe potuto scatenare giudizi contrastanti. In realtà l’apprezzamento è stato ampio e il fan base ha supportato questa produzione in modo sostanzialmente compatto, a riprova di come la versione televisiva non abbia tradito lo spirito dei personaggi di Herron.
Il critico del Guardian, Stuart Jeffries[4], rileva il fatto che la traduzione visiva ci lasci talvolta la sensazione di un deja vu, riportandoci alla mente produzioni più recenti, come Killing Eve e un film di qualche anno fa, La talpa[5], in cui proprio Oldman interpretava il ruolo di un altro veterano dell’intelligence, George Smiley. L’immaginario visivo non è in somma dei più originali, ma è un aspetto che passa in secondo piano grazie alla fluidità della narrazione e alla rielaborazione complessiva, che mantiene una forte identità.
La seconda stagione della serie è attesa a breve e già si conoscono i nomi di nuovi membri del cast, come Aimee-Ffion Edwards (Peaky Blinders) e Kadiff Kirwan (The Stranger). Al termine dell’ultimo episodio, ne abbiamo già un interessante assaggio.
Titolo originale: Slow Horses
Durata media degli episodi: 50 minuti
Numero degli episodi: 6
Distribuzione streaming: Apple TV+
Genere: Thriller, Spy.
Consigliato: a chi cerca una serie essenziale, coinvolgente, ben recitata, insomma senza sbavature. Non serve essere appassionati di spy story britanniche per apprezzare questo prodotto, ma certamente aiuta per capirne l’originalità.
Sconsigliato: la serie è molto britannica nel mood, anche se la connotazione culturale e geografica non appesantisce il prodotto e non ne limita la comprensione. I romanzi di Herron forniscono però qualcosa di più nel raccontare il tessuto sociale della Gran Bretagna, aspetto che invece la serie tocca solo marginalmente, concentrata com’è più sull’azione che sulla descrizione dei caratteri.
Visioni parallele: un’altra serie che parla di agenti segreti e dell’MI5 in modo del tutto originale: Killing Eve. La storia della killer a pagamento Villanelle (Jodie Comer) e dell’agente che cerca di catturarla, Eve Polastri (Sandra Oh), rappresenta una straordinaria variazione sul tema spy story, fresca e vivace, con attrici in stato di grazia.
Per chi volesse invece permanere nell’universo narrativo dei ‘ronzini’, allora il consiglio è di leggere il libro di Mick Herron, Un covo di bastardi (Milano: 2019, Feltrinelli) da cui è stata tratta questa prima stagione. Per quanti volessero portarsi avanti, in attesa della seconda stagione, le avventure della squadra di Lamb proseguono con Dead Lions. In bocca al lupo (Milano: 2022, Feltrinelli) in cui Lamb cerca di capire qualcosa di più della morte di un suo vecchio collega ai tempi della guerra fredda, Dickie Bow: un vecchio leone. Proprio come Lamb, a dispetto del nome.
Un’immagine: vogliamo soffermarci sulla sigla, realizzata da Mike Jagger sulla traccia del compositore Daniel Pemberton. Composta durante il lockdown, “Strange Game” è stata scritta velocemente, anche grazie alla conoscenza della saga di Herron da parte di Jagger e al buon feeling con Pemberton. Una canzone “irriverente e un po’ sinistra” secondo le parole del cantante, in pieno stile Lamb-Oldman, perfetta come manifesto della serie.
[1] L’ora più buia (2017).
[2] Strange Game è la sigla della serie Slow Horses firmata da Mick Jagger, articolo di Gianluigi Riccardo sul sito Radio Freccia: https://www.radiofreccia.it/notizie/articoli/strange-game-e-la-sigla-della-serie-slow-horses-firmata-da-mick-jagger/ Ultimo accesso 04 Maggio 2022
3 Slow Horses Director James Hawes – “I said, well, what about Jagger?”. Intervista rilasciata a Jonathan Reed per Screen Times, pubblicazione digitale dedicata al mondo narrativo di Apple TV: https://www.screentimes.net/article/slow-horses-director-james-hawes-i-said-well-what-about-jagger Ultimo accesso 04 Maggio 2022.
[4] Slow Horses review – Gary Oldman will give you deja vu, articolo di Stuart Jeffries sul sito del quotidiano The Guardian, https://www.theguardian.com/tv-and-radio/2022/apr/01/slow-horses-review-jaded-spies-gary-oldman-kristen-scott-thomas Ultimo accesso 05 Maggio 2022.