The act of killing ****
L’atto di un uccidere, ma anche la messa in scena di un massacro.
Il film di Joshua Oppenheimer, prodotto da Werner Herzog ed Errol Morris racconta entrambe le cose, creando un cortocircuito cinematografico, storico, sociologico, come raramente è accaduto sul grande schermo.
Tutto ha inizio in Indonesia nel 1965, quando il fallito Colpo di Stato del Movimento 30 settembre portò alla caduta del governo democratico di Sukarno, per mano del generale Suharto, che fece ricadere la colpa sul Partito Comunista.
Le squadre della morte di Suharto sterminarono solo nel primo anno circa un milione di oppositori, con l’accusa di essere “comunisti”. Tra questi quasi tutti i cinesi presenti in Indonesia. Un genocidio di proporzioni inimmaginabili.
Il regime di Suharto durò 30 anni, fino a quando la crisi asiatica di fine anni ’90 lo costrinse alle dimissioni, anche grazie alle condizioni dei prestiti, garantiti dal FMI. Si stima che circa un terzo delle risorse per lo sviluppo del paese abbia alimentato le ricchezze personali di Suharto e dei suoi fedelissimi.
I piccoli gangsters locali, i cosiddetti “preman” furono essenziali per mettere in atto il piano criminoso del generale: si occuparono degli omicidi di massa, degli interrogatori, delle torture da infliggere a chiunque fosse sospettato di essere contro il regime.
Ancora oggi il partito paramilitare della “Gioventù Pancasila” si vanta dell’eredità politica e morale di quello sterminio e ne rivendica le ragioni ed i motivi, patriotticamente.
Ma non si tratta di un piccolo movimento, bensì di un forte partito di governo con milioni di aderenti, che vestono una divisa militare arancione e che ancora oggi terrorizzano la popolazione locale con l’estorsione e metodi che in qualsiasi democrazia sarebbero ritenuti criminali.
Sulla tv nazionale i killers sono trattati da eroi, il genocidio è materia da talk show disimpegnati ed il paese intero sembra aver rimosso completamente il proprio passato.
Anwar Congo and Adi Zulkadry erano nel 1965 due gangsters di Medan nel Nord Sumatra. La loro occupazione principale era quella di fare bagarinaggio sui biglietti del cinema locale (!)
Quando cominciò la repressione di Suharto, i due diventarono killers a pagamento per le squadre della morte del generale.
Si occuparono degli interrogatori, delle torture e degli omicidi di massa. Chi poteva pagare la propria salvezza veniva risparmiato, gli altri venivano decapitati con un filo di ferro.
Quando Oppenheimer li incontra, Anwar e Adi sono due anziani signori, rispettabili ed ancora temuti nella comunità. Nessuno li ha mai accusati di nulla, girano liberamente, hanno fatto carriera, dentro e fuori le istituzioni, assieme a giornalisti compiacenti, funzionari, politici.
Il regista li intervista e gli chiede di raccontare la loro storia, ritornando nei luoghi dove avvenivano gli omicidi. E i due lo fanno senza apparente rimorso, con una freddezza ed una superficialità che lascia atterriti e sconvolti. Sono stati costretti a venire a patti con il loro lato oscuro e l’hanno fatto, occultando qualsiasi senso di colpa.
I racconti si arricchiscono di particolari macabri e feroci, in un contesto di apparente normalità, ed allora Oppenheimer decide di fare un passo ulteriore, coinvolgendo Anwar, Adi ed i loro compagni di un tempo, nella messa in scena delle loro imprese.
Il regista sfrutta la fascinazione dei gangsters per il cinema e li spinge a recitare se stessi, assecondando la loro mitomania.
Ricostruendo interrogatori, torture, attacchi a case e villaggi, il regista li obbliga a invertire i ruoli di un tempo, e così li costringe finalmente a vedere, a subire, a riflettere sul passato.
I carnefici interpretano le vittime di un tempo ed il risultato è sorprendente.
Ma non c’è solo questo: il film nel film mette in scena i loro sogni (…e i loro incubi), con un impeto surreale e grottesco.
Il risultato che vediamo sullo schermo è frutto di quelle immagini, delle riprese dietro le quinte del set, delle prove sulla strada e delle interviste che le precedono e le seguono, con un approccio che sfida la linearità del cinema del reale.
The act of killing è, assieme a L’image manquante, uno dei capolavori di questa stagione cinematografica: entrambi raccontano l’abisso della dittatura e cercano di ricostruire con la forza del cinema, le immagini che il regime sembra aver cancellato.
La storia scritta dai vincitori non ammette revisionismi: il genocidio è ridotto ad eroica resistenza anticomunista. Le atrocità commesse nel passato sono le fondamenta su cui la moderna Indonesia si relaziona con il mondo.
Oppenheimer racconta la rimozione dell’orrore di un intero paese.
La Storia ha perso qualsiasi senso e ragione, sostituita dal racconto falso e leggendario, imposto dal regime. In un momento di lucidità, Adi capisce che il film rischia di mostrare davvero chi erano i “preman” e di favorire un ribaltamento completo della verità, imposta nell’ultimo mezzo secolo.
La forza del racconto cinematografico è pericolosa: se ne accorge anche il ministro della gioventù, che partecipa alle riprese ed esprime tutti i suoi dubbi al regista, in una pausa tra un ciak e l’altro.
Ma persino le vittime sono del tutto inconsapevoli del proprio destino. Hanno rimosso completamente il dolore, la tragedia, il senso della propria identità.
Uno dei vicini di casa di Anwar, coinvolto nelle riprese, racconta di quando le squadre della morte rapirono ed uccisero il suo patrigno, senza alcun motivo, solo perchè era di origine cinese: fu costretto ad abbandonare la propria casa, rifugiandosi in campagna e perdendo la possibilità di frequentare la scuola e di garantirsi un lavoro decoroso.
E’ una storia straziante, disperata, ma il protagonista la racconta mettendosi a ridere, come se fosse una barzelletta, del tutto inconsapevole della tragedia che ha segnato la propria vita.
La propaganda di regime è riuscita a modificare radicalmente la percezione di quegli eventi, li ha annientati nel ricordo, annichilendo qualsiasi senso di rivalsa.
Il film si apre così ad una vertigine interpretativa capace di abbracciare la psicologia individuale e collettiva, la filosofia politica, la storia di un intero paese.
The act of killing sfida persino le sue stesse ambiguità di messa in scena e non arretra di fronte a personaggi che hanno trasformato l’orrore della morte in una pratica contabile.
Oppenheimer, alle prese con una tragedia dimenticata, è costretto a raccontare, come la Arendt, la banalità del male, la rimozione della colpa, l’inconsapevolezza di sè e del proprio agire. Per farlo ovviamente corre un duplice rischio: di sfruttare i suoi protagonisti ed al contempo di “umanizzarli”, di renderli affascinanti, in qualche modo.
Ma la posta in gioco era troppo importante.
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