John Wick 4

John Wick 4 **1/2

Sono passati quasi dieci anni dal debutto cinematografico di John Wick, il killer a contratto più implacabile del nuovo secolo, una sorta di baba yaga invincibile e misterioso, richiamato in azione dal suo ritiro professionale, per vendicarsi del furto della sua Mustang nera del 1969 e dell’ uccisione insensata del cucciolo, che gli aveva regalato la moglie in punto di morte.

Ideato dallo sceneggiatore Derek Kolstad che aveva allora al suo attivo solo un paio di modesti straight to video con Dolf Lundgren, il copione originale si intitolava Scorn ed era stato venduto alla Thunder Road Pictures di Basil Iwanyk (Sicario, The Town, Wind River), con l’idea di farne un film a basso budget per un attore di mezza età.

Iwanyk ha difficoltà enormi per chiudere il budget e dà il via libera alle riprese, che rischiano sino all’ultimo di saltare del tutto, senza aver stretto accordi per la distribuzione americana.

E’ Keanu Reeves, pagato appena due milioni per il primo episodio, a suggerire di chiamare il film con il nome del suo protagonista e a pretendere che le scene d’azione vengano dirette e coreografate da due degli stuntmen più esperti di Hollywood, Chad Stahelski e David Leitch: il primo, in particolare, era stata la sua controfigura in Matrix.

Probabilmente anche per tagliare i costi, Iwanyk decide di affidare ai due la regia dell’intero film, che in fondo non è altro che un susseguirsi di stunt, sequenze d’azione e corpo a corpo: i registi li dirigono evitando il montaggio adrenalinico tipico dell’action contemporaneo, ma lasciando spazio alle performance, coreografate in piani sequenza e in campo medio, donando al film un look del tutto differente e decisamente vintage.

Il resto lo fa la Lionsgate, che acquista infine i diritti americani del film e lo lancia appena due mesi dopo, con una campagna di marketing che posiziona John Wick come un lavoro originale, capace di segnare il ritorno in grande stile della sua star, nel ruolo di un sicario che abita un milieu criminale, in cui ci sono regole ferree e spazi rituali da rispettare.

Il film è un discreto successo, quadruplicando in incassi il modesto investimento produttivo iniziale. Ma ad ogni nuova avventura, budget e incassi raddoppiano rispetto a quella precedente, in una progressione che ha portato questo quarto capitolo a superare il costo di 100 milioni di dollari e a raggiungere la durata monstre di 169 minuti, scena post-credit compresa.

Solo che, per strada, John Wick è diventato qualcosa d’altro: innanzitutto il simbolo di un modo diverso di riscrivere il contesto action, trasportando la natura grezza e iperrealistica della performance al centro del discorso e stringendo con lo spettatore un patto di lealtà che comprende un’amplissima sospensione dell’incredulità.

Arrivato alla sua quarta avventura e dopo aver già consumato ogni possibile detour del suo personaggio, esplorando ogni combinazione possibile del suo rapporto con la Gran Tavola e le sue regole, con il Continental di New York e l’amico Winston, a Stahelski non resta che trasportare il microcosmo di John Wick in territori astratti, più interessato all’aspetto teorico ed estetico della composizione che ad inseguire una storia che è puro canovaccio.

Rimesso in sesto dal Re della Bowery dopo la fine del terzo capitolo, Wick è un uomo in fuga deciso a prendersi la sua rivincita per liberarsi dal giogo della Tavola.

Sulle sue tracce quest’ultima ha scatenato, con pieni poteri, il sadico Marchese De Gramont, burattinaio pronto a tutto pur di ottenere lo scalpo di Baba Yaga: destituisce Winston e distrugge il Continental di New York, insegue Wick in Giappone ad Osaka, dove fa lo stesso con il Continental locale, quindi affida l’incarico di stanarlo a Caine, un’altra formidabile macchina d’azione, nonostante sia cieco.

Nonostante Caine conosca Wick da molto tempo, non può rifiutare l’incarico: ha una figlia da proteggere, l’ultima sua ragione di vita.

Per uscire da una faida che potrebbe durare in eterno, Winston suggerisce a Wick di tornare alle regole d’ingaggio originali della Gran Tavola: si fa reintrodurre nella sua famiglia – i bielorussi della Ruska Roma – ovviamente dopo aver consumato per loro una formidabile vendetta nel cuore di Berlino e lancia un duello formale a De Gramont, da consumarsi all’alba sul sagrato della chiesa del Sacro Cuore di Parigi.

L’intreccio essenziale è solo un modo per muovere i personaggi, ma la vera struttura del film è data dalle tre macro sequenze d’azione su cui è costruito: i motivi sono trascurabili, quello che interessa a Stahelski è misurare l’attesa e poi mostrare la meraviglia dello scontro, tra corpi, luci, macchine, armi bianche e pistole, costruendo traiettorie di sguardo, disegnando colpi e ribaltando prospettive.

Il primo grande momento è quello dell’assalto al Continental di Osaka, con i sensori di Caine, che sembrano venire dritti dalla fantasia inesausta del vecchio cinema di Hong Kong, e la stanza delle maschere e delle armature in cui tutto diventa uno strumento di sopravvivenza e in cui i neon bianchi e rossi disegnano in controluce sagome di corpi che si scontrano e si ricompongono in una lotta senza sosta.

Il secondo grande movimento si apre in un club di Berlino, ad un tavolo da poker, e prosegue negli spazi sbalorditivi di una discoteca sommersa da cascate d’acqua. Qui lo scontro tra il gigantesco Scott Adkins e Reeves assume una forza drammatica impareggiabile, in cui il fisico esile dell’uno e quello gonfiato dalle protesi dell’altro sembrano evocare lo ying e lo yang: una danza macabra che sfida la gravità, mentre tutti intorno a loro continuano a ballare.

Infine, dopo un sensazionale scontro ripreso tutto in un piano sequenza in plongè all’interno di un edificio abbandonato, in cui quello che conta è solo la direzione dei colpi, senza più la possibilità di distinguere l’identità di chi spara e chi è colpito, c’è la lunga scena di Parigi, che comincia con un corpo a corpo all’Arco di Trionfo, in mezzo al vorticoso traffico serale – probabilmente il vertice di questo film – prosegue al Trocadero con una sfida a carte tra Wick e De Gremont per le regole d’ingaggio, si trascina in una notte impossibile di sopravvivenza che sembra un omaggio esplicito ai Guerrieri della notte, compreso il controcanto sensuale della voce di Radio Wuxia, e si chiude all’alba con il duello rituale, alla fine dei duecento gradini che portano al Sacro Cuore.

Keanu Reeves sembra arrivato a consumare ogni energia personale per questo nuovo capitolo, vertice di una carriera cominciata sulle onde di Point Break e poi capace di attraversare quasi trent’anni di cinema d’azione, da Speed a Matrix, da Constantine ai poliziotti di Ellroy, con una dedizione assoluta.

Accanto a lui questa volta c’è Donnie Yen, uno dei corpi e dei volti più riconoscibili del cinema d’arti marziali, quasi a simboleggiare l’inesauribile confronto tra la scuola occidentale e quella orientale.

Per qualcuno Stahelski questa volta si è spinto troppo avanti, cercando di replicare gli esperimenti autoriali di Refn, senza averne gusto e (dis)misura, ribaltando così i termini del suo successo, quelli di un b-movie purissimo, autoironico, capace di affascinare pubblici più sofisticati, proprio grazie alla sua essenzialità. Questa volta, anche grazie ad un investimento cinque volte maggiore rispetto al primo capitolo, tutto è estremamente costruito, perfettamente realizzato, puntigliosamente provato, ma il rischio di prendersi troppo sul serio è sempre presente.

Per altri invece la gravitas barocca di questo episodio, la stratificazione degli elementi, la composizione formale esagerata di questo viaggio verso la morte erano l’unica possibilità dopo aver esplorato ogni piega del mondo di John Wick nei tre film precedenti.

Il giudizio rimane sospeso, gli spettatori nel frattempo sembrano apprezzare particolarmente: d’altronde John Wick si fa soprattutto per loro.

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