Captain Volkonogov Escaped *1/2
Il Capitan Fyodor Volkonogov lavora nella polizia politica della Russia staliniana.
E’ stato approvato il terzo piano quinquennale e lui e gli altri militari giocano a pallavolo nei saloni affrescati, tra un interrogatorio e una rivalutazione con “metodi speciali”.
In quelle sale persone innocenti vengono accusate di sabotaggio, di tradimento, si terrorismo, di spionaggio, di propaganda anti-sovietica e costrette a confessare con la tortura, prima di essere giustiziate da un boia implacabile con un solo colpo alla nuca: d’altronde “siamo in uno stato di diritto” dice a Fydor il suo superiore, prima di buttarsi dalla finestra: “ad ogni punizione deve corrispondere un crimine”.
Dopo il suicidio del maggiore, Fydor capisce che il cerchio si sta stringendo attorno a lui e ai suoi compagni. Va trovato un colpevole e non ha alcuna intenzione di fare da capro espiatorio.
La sua ragazza lo tradisce, mentre uno dei suoi compagni viene torturato fino alla morte, senza tradirlo.
Scambiato per un barbone in un rastrellamento, finirà per scavare la fossa comune in cui le vittime delle purghe verranno seppellite.
Una volta sistemata la terra però il corpo del suo compagno riemerge per avvertirlo: sono finiti tutti all’inferno. L’unica possibilità di Fydor è quella di chiedere scusa ai parenti delle persone che ha torturato, ottenendone il perdono.
Braccato dal nuovo maggiore, si sposterà per tutta la città, con il dossier delle sue vittime, per informare figlie, padri, mariti e bambini del destino dei loro cari, accusati ingiustamente, costretti a confessare colpe che non avevano e giustiziati al culmine di un processo sommario.
Nessuno però riuscirà a perdonare Fydor. Qualcuno lo prenderà a botte, qualcun altro lo denuncerà alla polizia, un bambino tenterà di bruciargli il dossier, una dottoressa lo manderà a quel paese, negandoli quell’assoluzione che tanto cerca.
Pian pian, attraverso i flashback capire i metodi, i motivi, la banalità stringente del Male, ridotto ad un rituale di morte, che piega la giustizia ad un formalismo di moduli in cui appuntare confessioni che non valgono nulla.
Solo che il film di Merkulova e Chupov, completato proprio grazie al Production Bridge della Mostra di Venezia un anno fa, è scritto in modo pedestre, enfatico, manipolatorio.
L’idea del fantasma che torna dalla morte per mettere in guardia Volkonogov e poi per congratularsi della riuscita del suo piano, è stucchevole, pasticciata, priva di una qualsiasi forza poetica o anche solo spirituale.
Non si capisce poi se Fydor cerchi il perdono per un principio di pentimento e di ravvedimento o solo meccanicamente, come pare, per evitare le pene dell’inferno prossimo venturo.
Gli incontri con le persone care alle vittime dei suoi interrogatori, sono costruiti tutti secondo lo stesso copione, che perpetua la macchinosità di una storia che dopo mezz’ora ha già mostrato tutti i suoi limiti e che si prolunga all’infinito, senza motivi reali.
Quanto allo schianto finale in cgi che pone fine alle miserie di Fydor è così mal girato da lasciare sconcertati.
Forse il peggior film della Mostra. Pretenzioso, vuoto e vacuo.