Great Freedom

Great Freedom **1/2

Le immagini rumorose della pellicola che gira in un proiettore: sono riprese rubate di incontri furtivi e clandestini nei bagni pubblici, che conducono Hans Hoffmann all’ennesima condanna a 24 mesi di prigione, in forza del paragrafo 175 che punisce l’omosessualità nel Codice Penale della Germania Ovest.

Siamo nel 1969 e al suo ritorno in carcere, tra punizioni, isolamenti disumani e lavori di sartoria, il protagonista cerca di costruire furtivamente un rapporto sentimentale con Leo, un professore che ha subito la sua stessa condanna.

Parallelamente ricuce i rapporti con Viktor, conosciuto nel lontano 1945, quando era era passato alla fine della guerra dai lager nazisti alla prigione di stato, senza soluzione di continuità.

Viktor sopravvive spacciando droga in carcere. Tra repulsione e diffidenza, i due uomini hanno stretto un’amicizia duratura, rinverdita nel corso degli anni, ad ogni nuovo arresto e ad ogni nuova condanna di Hans.

Nel 1957 Hans viene rinchiuso con Oskar, il suo compagno, che non riuscirà mai a tollerare l’onta del carcere.  A lui sono dedicate le immagini felici di un altra pellicola, un filmino familiare, girato sulla riva di un fiume.

Il film di Sebastian Meise si muove su tre diversi piani temporali, ma in un unico ambiente soffocante e malsano, quello angusto della prigione.

Anche questa volta dopo Still Life e il documentario Outing, il regista austriaco racconta di amori proibiti, con una messa in scena rigorosissima e una distanza sempre encomiabile, che pure lascia emergere pienamente gli elementi melodrammatici di questa storia carceraria.

La dimensione di genere resta pure evidente, ma subordinata rispetto al rigoroso realismo delle immagini e della fotografia di Crystel Fournier che ci invita a scrutare tra ombre e oscurità nell’inferno carcerario fatto di soprusi e attesa.

Franz Rogowski si incarica di testimoniare la fedeltà a se stesso, al suo desiderio e alla sua natura, di fronte a un ordinamento che tra paragrafi, sections e articoli ha represso brutalmente, in gran parte d’Europa, le passioni omosessuali per un periodo che oggi ci appare insopportabilmente, inescusabilmente lungo.

Il suo personaggio ha introiettato la colpa in modo così radicale da non riuscire più a vivere liberamente. E così anche quando l’odioso paragrafo 175 verrà abolito, Hans non riuscirà davvero a immaginarsi lontano da quel regime concentrazionario in cui ha trascorso la sua intera esistenza.

La sua adesione fisica alle diverse età del personaggio e alle sofferenze patite in carcere non diventa mai fine a se stessa, ma ci aiuta a comprendere immediatamente il “linguaggio” della prigione.

Intelligentemente Meise costruisce tutto il film attorno ai diversi periodi di detenzione di Hans, lasciando fuori campo la sua vita all’esterno della struttura, salvo che nell’emblematico finale, come a dirci che non c’è libertà possibile neppure fuori dalle sbarre del carcere e che la sua esistenza è un continuo ritorno dell’identico, senza più via d’uscita.

Un capovolgimento delle attese che lascia l’amaro in bocca di una sconfitta paradossale non solo e non tanto dal punto di vista personale, quanto collettivo.

In Italia è disponibile sulla piattaforma Mubi.

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