The Dropout è la storia di Elizabeth Olmes e dello scandalo finanziario che ha coinvolto Theranos, la start-up biomedica che, nelle intenzioni della fondatrice, avrebbe dovuto cambiare il modo di prelevare e analizzare il sangue, utilizzandone solo poche gocce per fornire al paziente molteplici dati. Una straordinaria possibilità di evoluzione della diagnostica che però non si è mai concretizzata per limiti nelle applicazioni tecniche, trasformandosi così in una truffa basata su dati sanitari inaccurati o falsificati. Il modello a cui Elizabeth si richiama spesso, anche nell’abbigliamento, è Steve Jobs, ma là dove la visione di Jobs era ancorata a una progettualità tecnica, quella di Elizabeth si muove senza rete, procrastinando la soluzione di problemi tecnologici che nemmeno il tempo e il capitale dei soci riescono a risolvere. E’ la fretta l’elemento che maggiormente penalizza la giovane donna: l’ansia di raggiungere l’affermazione la porta a lasciare Stanford – il termine dropout indica proprio lo studente che abbandona un percorso di studi – gettandosi in una rincorsa del successo che stravolge ogni rispetto della scienza e della salute dei pazienti. Glielo ricorda la professoressa Phyllis Gardner, a cui Elizabeth chiede un sostegno, che le viene peraltro rifiutato in modo brusco. A seguito dell’ennesima citazione di Yoda “Fare o non fare, non c’è provare”, Phyllis le risponde infatti che questo è tutto il contrario del metodo scientifico, basato proprio su molteplici tentativi ed errori. Un concetto lontano dal mondo di Elizabeth e da quanti semplicisticamente associano il successo alla mera volontà individuale: così, affiancata da Sunny Balwani, un ricco cinquantenne conosciuto a Pechino durante un programma intensivo per migliorare il mandarino, a 19 anni Elizabeth fonda Theranos, la società biomedica che, nelle sue ambiziose aspirazioni, sarà in grado di cambiare il mondo e renderla ricca.
Il racconto è basato sul podcast omonimo, realizzato per ABC della giornalista Rebecca Jarvis. Hulu ne ha tratto una serie in otto episodi, disponibile in streaming sulla piattaforma Disney+ da Aprile di quest’anno. Il rischio, comune alle narrazioni di frodi finanziarie, era quello di prendere una piega documentaristica o eccessivamente tecnica, invece lo show riesce a mantenersi sempre piacevole: un intrattenimento di qualità in cui emerge Elizabeth, grazie all’interpretazione che ne offre Amanda Seyfried (Mean Girls, Les Miserables, The Art of Racing in the Rain), una protagonista con pochi sentimenti, molta ambizione e troppa fretta di raggiungere il successo. Elizabeth è determinata, ha le idee chiare già dopo il college: entrare a Stanford, laurearsi, fondare una sua società e diventare ricca. Un percorso in cui decide di saltare la fase della laurea, per diventare, a soli 19 anni, CEO di un’impresa con ricchi finanziatori. Un compito, in somma, più grande di lei. A sostenerla, come compagno, mentore e finanziatore è Sunny Balwani, interpretato da un ottimo Naaven Andrews. Il suo oscillare tra sostegno e minaccia, tra approvazione e denigrazione, tra supporto e violenza è una declinazione, neanche troppo moderna, del maschilismo paternalistico. Elisabeth peraltro decide di accettare l’atteggiamento di Sunny, per molti versi ossessionato da lei, un po’ per tornaconto e un po’ perché non ha alternative, né sembra in grado di cercarsele, troppo presa com’è dalla sua carriera e dal culto della propria azienda. Elizabeth ci appare come egoica, insensibile, paranoica, a tratti squilibrata, artefatta perfino nel tono di voce baritonale, per molti aspetti geniale, ma assolutamente caotica. Sunny la spinge ad apportare piccole modifiche per apparire un vero CEO, a cominciare dall’abbigliamento, per proseguire nel comportamento, abbandonando ogni traccia di fragilità e trasmettere l’idea di una donna forte. Lei stessa si definirà una ‘Iron sister’ in grado di spezzare i soffitti di vetro che limitano le donne nella loro affermazione professionale.
Se i singoli protagonisti sono meritevoli di attenzione è però il contesto ad emergere in modo emblematico: non è un caso che le pubblicazioni e i documentari su molte truffe degli ultimi anni facciano riferimento alla Silicon Valley. Quest’area, nei pressi di San Francisco, famosa per la concentrazione di imprese e start-up ad alto impatto tecnologico, non è solo il luogo in cui esse sono state partorite, ma piuttosto rappresenta il contesto culturale in cui hanno potuto attecchire. Un contesto in cui l’equilibrio tra la comunicazione e il prodotto è molto sottile ed è quindi facile finire per incrinarlo spostando il focus da quello che si fa a quello che si dice di fare o che si crede di fare (come nel caso di Elizabeth). In generale è l’idea delle potenzialità infinite del singolo a essere messa in discussione, cercando invece di ridare dignità ai percorsi tradizionali che richiedono tempo, fatica e lavoro di squadra.
Ci sono sembrati interessanti anche alcuni riferimenti alla società e alla cultura americana, come il senso di ansia da prestazione e le pressioni sulle giovani donne e, in generale, sugli studenti da parte delle famiglie che ne finanziano gli studi.
Interessante anche la scelta musicale, in grado di accompagnare la narrazione e di enfatizzare i momenti chiave, come la canzone Heroes, nell’omonimo episodio, uno dei migliori della mini serie.
Complessivamente un prodotto equilibrato in cui tutto funziona in modo preciso e sinergico. Proprio il contrario di quanto avveniva a Theranos.
Titolo originale: The Dropout
Durata media degli episodi: 60 minuti
Numero degli episodi: 8
Distribuzione streaming: Disney +
Genere: Drama, Biography
Consigliato: a chi cerca una storia avvincente, con protagonisti credibili e ben interpretati, che racconti uno spaccato della società e della mentalità americana.
Sconsigliato: a quanti cercano un documentario rigoroso e dettagliato o che si aspettano un’analisi sociologica approfondita. Ci sono, come detto, squarci interessanti che rivelano il volto della società americana più di molte analisi strutturate, ma nel complesso la priorità resta l’intrattenimento.
Visioni parallele: sono numerosi i titoli che raccontano, nel panorama seriale degli ultimi anni, celebri truffe finanziarie. Ne ricordiamo due dei più recenti: la produzione Apple We Crashed con Jared Leto e Anne Hathaway e Inventing Anna, show creato da Shonda Rhime e rilasciato in streaming da Netflix. We Crashed racconta l’ascesa (e il crollo) di WeWork, la start-up di Adam Neumann (Jared Leto) che ha diffuso in America gli spazi di coworking, sia fisici che virtuali. Inventing Anna è la storia di come Anna Sorokin, sotto il nome di Anna Delvey (Julia Garner) e grazie all’immagine di ricca ereditiera, sia riuscita a farsi beffe dell’establishment culturale ed economico newyorchese, frodando banche, hotel e investitori per oltre 275.000 $.
Per quanti volessero approfondire ulteriormente la storia di Theranos, la lettura d’obbligo è invece Bad Blood: secrets and lies in a Silicon Valley Startup del giornalista che ha condotto l’inchiesta per il WSJ, John Carreyrou. E’ disponibile anche un documentario targato HBO, The inventor: Out for Blood in Silicon Valley.
Un’immagine: una frase per sintetizzare il percorso di molte altre start-up la prendiamo dalla serie Apple We Crashed, dove uno degli investitori si rivolge così ad Adam Neumann: “O diventerai milionario o andrai in prigione”. Diciamo che molti giovani rampanti sono riusciti a realizzare entrambe le cose. Bruciando le tappe, proprio come Elizabeth.