Al suo terzo film come regista, l’australiano Leigh Whannell, creatore e sceneggiatore di due delle saghe horror più longeve del nuovo secolo, come Saw e Insidious, affronta, questa volta per la Blumhouse, uno dei personaggi storici della galleria dei Mostri Universal, l’Uomo Invisibile.
Tratto dal romanzo di H.G.Wells, scritto alla fine dell’Ottocento e non privo di elementi umoristici, il personaggio viene portato sullo schermo per la prima volta nel 1933 da James Whale con Claude Reins nel ruolo del fisico Griffin, che sperimenta un processo che lo rende invisibile, e si trasforma in un criminale, braccato dalle autorità.
Molti i sequel e gli spin-off nel corso del secolo scorso e persino un episodio con Gianni e Pinotto, ma le versioni più note, dopo l’originale, restano Le avventure di un uomo invisibile di John Carpenter con Chevy Chase e Daryl Hannah del 1992, tratto peraltro dal romanzo di Harry F. Saint del 1987 e L’uomo senza ombra di Paul Verhoven con Kevin Bacon e Elisabeth Shue.
Leigh Whannell decide tuttavia di stravolgere completamente il testo di Wells, assegnando all’idea stessa dell’uomo invisibile una connotazione inedita, radicale, originalissima e pienamente connessa al dibattito culturale, che ha attraversato gli Stati Uniti e gran parte del mondo occidente, nel corso dell’ultimo lustro.
Il film si apre di notte, nella camera da letto di una casa meravigliosa, affacciata sull’Oceano Pacifico. Le onde si infrangono sulla scogliera, ma Cecilia, la protagonista, in silenzio assoluto, disabilita le telecamere di controllo, sblocca l’allarme, libera il cane Zeus e fugge con solo un piccolo borsone, dalla relazione malsana con l’ingegnere Adrian Griffin, un pioniere negli studi di ottica.
Scavalcato il cancello e superati i boschi circostanti l’attende la sorella Emily che la porta via e l’affida all’ex marito, il poliziotto James, che vive con la figlia Sydney.
Passano due settimane di terrore, in cui Cecilia non riesce neppure a varcare la soglia della sua nuova casa, quando le giunge la notizia che Adrian si è tolto la vita.
Difficile immaginare però per Cecilia, che il compagno, ossessionato dal controllo, abbia fatto quella scelta. Ne sente ancora la presenza negli angoli della sua stanza, nel bagno di casa: sente di essere costantemente spiata.
Nel frattempo viene convocata da Tom, il fratello di Adrian, per la lettura del testamento, e scopre di aver ereditato la somma di 5 milioni di dollari, in versamenti mensili di 100.000 dollari per quattro anni.
Tuttavia una serie di eventi sempre più strani, la portano sull’orlo di una crisi di nervi e la isolano dalle poche persone che le sono accanto: la sorella Emily, la nipote Sydney, il poliziotto James.
Cecilia è convinta che Adrian non sia morto e la stia ancora tormentando. Difficile crederle, in quella che sembra una discesa verso la follia e la depressione.
Sposando interamente il punto di vista di Cecilia, Whannell trasforma il suo film in un horror sociale, terribilmente disturbante, che mostra quanto sia subdolo e angosciante il meccanismo psicologico dello stalking e della violenza domestica.
La protagonista cerca di sfuggire da una relazione abusiva, fatta di controllo ossessivo, minacce, coercizione, fisica e non, manipolazione della realtà e delle relazioni sociali.
Ciò che è veramente invisibile qui è la violenza, che scorre sotto traccia, in una relazione sentimentale malsana e che, nell’incredulità diffusa, trasforma la vittima in un soggetto instabile, visionario, paranoico, spingendolo in un abisso sempre più nero.
Whannell utilizza l’idea dell’invisibilità, per rendere manifesta una paura assolutamente concreta, reale.
La sua intuizione è amarissima e al contempo fertile, trasformando il congegno di genere e fantascientifico, in uno strumento capace di leggere e condensare ansie e inquietudini personali e collettive.
Il film funziona poi perfettamente, sia nella sua dimensione politica e culturale, se vogliamo, sia in quella più strettamente cinematografica.
Whannell conosce i meccanismi del terrore e sfrutta con una certa sapienza una serie di set chiusi: la casa di Adrian, quella di James, l’istituto in cui viene rinchiusa Cecilia, per accentuare l’effetto ansiogeno del sentirsi costantemente violati nella propria intimità. Questo meccanismo che trasforma la classica home invasion in uno stillicidio silenzioso di incidenti, che minano ogni certezza della protagonista, funziona in modo esemplare.
La scelta di un’attrice come Elisabeth Moss, è altrettanto indovinata, non solo per la capacità di mantenere il suo personaggio credibilmente a cavallo tra ossessione e sofferenza, ma perchè nella sua ordinarietà riesce a veicolare un messaggio ancor più forte e universale.
La furia e la devastazione emotiva servono la sua Cecilia alla perfezione. Un’altro grande ruolo Elisabeth Moss, nell’anno di Noi e Her Smell.
E’ lei l’argine emotivo del film, il suo baricentro e riesce a convincere anche quando il film svolta e trasforma il suo personaggio in una minaccia, a sua volta.
E qui che il film Whannell si fa più ambiguo, le coordinate morali si sfanno più sfumate e lo spettatore perde le certezze conquistate, fino a quel punto.
E’ una scelta efficace, spiazzante, piuttosto coraggiosa, che lascia aperti molti interrogativi, ma che mostra in modo evidente come il circolo della violenza sia difficile da interrompere, contagiando inesorabilmente persino le vittime e annerendo le vite di tutti.
Anche questa volta come in Upgrade, Whannell utilizza uno stile essenziale, parsimonioso, evita ogni lungaggine e si concentra sull’essenziale, con una solidità, che la sua lunga esperienza di genere amplifica ulteriormente.
Nella new wave dell’horror americano, da The Witch a It Follows, da Get Out a It Comes At Night, da A quiet place fino a Hereditary e The Haunting of Hill House, The Invisible Man occupa certamente un posto di primo piano.
Ultimo grande successo al box office americano prima del lockdown.