The Hunt

The Hunt **1/2

Il terzo film diretto da Craig Zobel avrebbe dovuto debuttare a fine settembre negli Stati Uniti. La campagna pubblicitaria e i trailer avevano accentuato la natura ambigua e provocatoria della satira scritta da Damon Lindelof (Lost, The Leftovers, Watchmen, World War Z) con Nick Cuse e ispirata dal classico della RKO, The Most Dangerous Game.

Tuttavia dopo le stragi ravvicinate di Dayton e di El Paso, la solita strategia di distrazione di massa presidenziale, se l’è presa con la corrotta Hollywood, rea di promuovere ideali di violenza tra i giovani, rinviando così, ancora una volta, ogni vera decisione sul controllo delle armi da fuoco e in particolare su quelle d’assalto.

Nell’occhio del ciclone, probabilmente in ragione del suo primo surreale teaser, finiva proprio The Hunt, che nessuno aveva visto, oltre ai suoi autori. Il presidente, senza mai nominarlo esplicitamente, twittava “The movie coming out is made in order to inflame and cause chaos”, prendendosela con i liberal razzisti  della Mecca del Cinema: “They create their own violence, and then try to blame others”.

Universal e Blumhouse sono state costrette a rinunciare al lancio del film, diventato senza alcun vero motivo, oggetto incendiario nel dibattito pubblico americano.

Fissata la nuova uscita al 13 marzo, il film è stato l’ultimo a debuttare nelle sale americane, prima del lockdown imposto dal Coronavirus, infrangendosi disastrosamente contro la fuga dalle sale, imposta dalle misure di prevenzione.

Riproposto così immediatamente da Universal sulle piattaforme VOD online, il film merita indubbiamente un recupero, perchè è un B-movie franco, spassoso e molto caustico nel raccontare un’America mai così divisa tra liberal e redneck.

Tutto comincia una mattina con una chat tra Athena e altri sette amici, qualche battuta cattiva sul presidente, l’immagine di una tartarughina spostata con un piede e poi Athena che scrive: “At least the hunt is coming up. Nothing better than going out to the manor to slaughtering a dozen deplorables”.

Cosa vorrà dire davvero?

Lo scopriamo subito dopo quando, su un volo privato, quello stesso gruppo di ricchissimi liberal si trova alle prese con il risveglio improvviso di uno dei passeggeri addormentati nella stiva, che non sa bene cosa gli sia accaduto.

Dopo un primo momento di panico, Athena risolve la situazione, grazie alle sue impeccabili tacco 12.

Arrivati a destinazione, le prede – gente comune, una dozzina di provinciali, per lo più elettori trumpiani, probabilmente – si risvegliano con un morso in bocca chiuso da un lucchetto, in una campagna anonima. Quando si riprendono dallo shock, trovano una grande cassa in mezzo ad un radura: dentro un piccolo porcellino e un armeria fornitissima di pistole, fucili, coltelli: serviranno a poco, perchè dalla collina dei cecchini cominciano a sparare all’impazzata. Chi fugge trova un campo minato e salta per aria, un recinto col filo spinato dove venire traffitti da frecce acuminate, quindi fosse piene di spuntoni.

Una strage che fa subito molte vittime. Tre più scaltri riescono a fuggire e si riparano in una stazione di servizio. Troveranno una brutta sorpresa ad attenderli.

Non così Crystal, una bionda, apparentemente innocente, in realtà una veterana dell’Afghanistan, che senza mai troppo scomporsi, comprende la posta in gioco e come sopravvivere.

Scoprirà così che la caccia non si svolge negli Stati Uniti, ma in Croazia, finirà su un treno merci, quindi in un campo profughi, scoprirà le mosse dei cacciatori e arriverà sino in fondo.

Ma non è tutto è davvero come sembra.

Punteggiato da battute nerissime, sull’ipocrisia liberal del politicamente corretto e sul complottismo negazionista dei conservatori, il film sfrutta il set avventuroso e le coordinate di genere di un survival horror, cercando il tono giusto, in un quella che è un sostanzialmente una commedia nera grottesca e molto sopra le righe.

Ci riesce anche grazie al volto di pietra di Betty Gilpin, la Crystal che diventa pian piano la vera protagonista del film. Già vista in Glow, l’attrice sfrutta una fisicità travolgente, unita ad un espressività ridotta al minimo, attraversando il film con un’impassibilità, che crea un corto circuito con gli eccessi che l’accompagnano.

Zobel radicalizza ovviamente le posizioni, punta agli estremi, per mettere sale sulle ferite del paese ed esagera i cliché, costruendo un film rabbioso, in cui, come ha scritto David Ehrlich su Indiewire convive l’ironia di una striscia del New Yorker con la ferocia di un film di Eli Roth.

The Hunt mette nel suo mirino ignoranti e creduloni, almeno quanto le èlite che sembrano vivere in un’altra America, a cui tutto è consentito. Il Paese che descrive è un posto in cui ci si può solo combattere, incapace di parlare una lingua comune, figuriamoci di immaginare una possibile coesistenza.

Divisi tra lepri e tartarughe, come nella storia truce, che la madre raccontava a Crystal, non si è più capaci di accettarsi.

E in cui si manipola e si viene manipolati, scavando nella paura ed evocando crudeltà, che si avverano solo perchè così abbiamo deciso. “Attenta a quello che desideri” dice alla fine Athena a Crystal, “perchè potrebbe avverarsi davvero”.

The Hunt non è meno feroce con la dittatura del politicamente corretto, prima irriso causticamente, con i liberal-cacciatori, che discutono dell’uso dell’innominabile ‘n’ word, mentre trucidano senza pietà prede innocenti.

Poi, in modo più deciso, quando scopriamo che il loro destino di CEO e manager è stato deciso da un pugno di discutibili messaggi privati, rivelati in pubblico.

Così come l’uso della parola spooks era l’inizio della fine, per il professor Coleman Silk ne La macchia umana di Philip Roth, qui è l’utilizzo di deplorables, che viene rimproverato ad Athena.

Peraltro ‘basket of deplorables‘ era proprio la contestatissima frase usata da Hillary Clinton nella campagna presidenziale del 2016, per indicare i simpatizzanti di Trump.

Nel balletto delle parole, tuttavia il paese sembra aver smarrito completamente il senso di sè e della propria storia, per non dire dei propri valori.

L’unica speranza, sembrano dirci Zobel e i suoi sceneggiatori, forse sta in una working class, che ha cercato di emanciparsi, che ha letto Orwell e non si è fermata ai racconti materni, che ha servito il Paese ed è pronta a condividere il benessere: un po’ lepri che corrono veloci e un po’ idealisti, come il maiale palla di neve della Fattoria degli animali.

Ma è davvero così? O è un’altra illusione?

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