Una didascalia ci ricorda l’esistenza di una vastissima rete sotterranea di gallerie e cunicoli: vecchie miniere, linee ferroviarie e metropolitane in disuso, che attraversano ancora gli Stati Uniti.
Un vecchio televisore ci rimanda la pubblicità di una campagna sociale, Hands Across America, che nel 1986 si prefiggeva di creare una lunghissima catena umana attraverso il paese: 6,5 milioni di americani aderirono e si tennero per mano, in una domenica mattina di maggio, donando dieci dollari ciascuno, per le associazioni che si occupavano di povertà e assistenza.
Sui titoli di testa, l’immagine di un coniglio, che piano piano si allarga, fino a mostrarci un’enorme gabbia, che ne contiene centinaia.
Solo dopo questi elementi introduttivi, apparentemente estemporanei, facciamo conoscenza con Adelaide, la protagonista del film. La incontriamo bambina, negli anni ’80: con i suoi genitori trascorre la serata sulla chiassosa spiaggia di Santa Cruz, piena di attrazioni e giostre. La piccola si allontana dal padre ed entra da sola nella casa degli specchi di uno sciamano. Quando ne esce, è sconvolta. Cos’è accaduto davvero in quel corridoio buio?
Passano molti anni e Adelaide torna a Santa Cruz con la sua famiglia borghese, il marito Gabe Wilson e i figli Zora e Jason. Trascorrono le loro vacanze con i Tyler, che hanno due gemelle dell’età di Zora.
Sulla spiaggia però i fantasmi del passato sembrano turbare l’equilibrio di Adelaide. E quando la sera, davanti alla loro casa, si presentano, minacciosamente avvolti nel buio, due adulti e due bambini vestiti di rosso, che si tengono per mano, del tutto somiglianti ai Wilson, le cose prendono una bruttissima piega.
Rivelatosi due anni fa con lo straordinario e disturbante Scappa – Get Out, l’attore e comico Jordan Peele mostra, con questo suo secondo film, che gli entusiasmi e il successo del suo esordio erano certamente giustificati e ben riposti.
Noi – vagamente ispirato ad un episodio di Ai confini della realtà – scritto, prodotto e diretto da Peele, è un altro lucidissimo ritratto dell’America del nuovo secolo, contenuto in una cornice horror ancor più pertinente e fedele, rispetto a quella che delimitava il suo primo film.
Dopo il lungo prologo, che serve a Peele solo nella seconda parte del suo film, quando il mistero pian piano lascia spazio alla verità, Noi segue il canovaccio di genere, con grande precisione: è un classico horror, fondato su una home invasion.
Ma se l’intrusione e la violenza, messe in atto all’interno delle mura domestiche, hanno sempre rappresentato metaforicamente la messa in discussione delle certezze borghesi della famiglia e dell’identità di ciascuno dei suoi componenti, qui Peele si spinge molto oltre, allargando sensibilmente il suo orizzonte narrativo ad una critica severa al modello economico, che ha accompagnato tutta l’esistenza di Adelaide e che lega l’America trumpiana a quella reaganiana degli anni ’80.
Il passato è un incubo che ritorna, mette a disagio, lascia spiazzati. Quando Adelaide chiede “Cosa siete voi?” Red, il suo doppio, le risponde solo “Siamo americani“. Lo stesso titolo originale del film, Us, può essere certamente letto anche come l’acronimo, che identifica gli United States.
Peele tuttavia lascia le sue intenzioni avvolte quasi sempre nell’ombra, facendo parlare le immagini, mostrando la forza dei suoi argomenti, senza mai alzare la voce, celando nelle pieghe della storia di Adelaide il suo messaggio più importante, un po’ come faceva il sarto Reynolds Woodcock, cucendo i suoi abiti ne Il filo nascosto.
E svelando la forza del suo apologo solo alla fine, nello sguardo che si scambiano madre e figlio, in fuga, complici di una verità, che nessuno potrà rivelare.
Anche se avete immaginato in anticipo il twist finale, la sua conferma non ne diminuisce la forza, mostrando ancora una volta che le cose più spaventose, spesso sono sotto i nostri occhi quotidianamente.
Il film funziona perfettamente sia come semplice meccanismo di genere, nella sua dimensione di puro intrattenimento, sia nelle sue molteplici letture politiche, antropologiche, culturali.
Noi lavora anche sull’eterna dicotomia tra natura e cultura, mostrando come siano quasi sempre le opportunità e il privilegio, a fare la differenza e a distinguere chi sta sopra e chi sta sotto.
Inoltre i pacifici Wilson si trasformano velocemente da vittime a carnefici e non si fanno scrupoli ad uccidere e seviziare, quando è la paura dell’altro a muoverli e quando temono di perdere il loro status acquisito. Peele lascia a Winston Duke, nei panni del capofamiglia Gabe, il ruolo più esplicitamente comico, che consente a Noi di accompagnare la tensione drammatica, con la giusta dose di autoironia.
Peele mostra di conoscere il genere con una competenza enciclopedica, da Romero a Carpenter, da Kubrick a Siegel, eppure il suo non è un film di omaggi, ma i riferimenti e le matrici contribuiscono a creare, da un lato, un’atmosfera di angoscia opprimente, dall’altro, a mostrare quanto la stessa cultura pop sia un’elaborazione malevola e corrotta, che alimenta lo stesso sistema di potere oppressivo, che se ne serve.
Senza voler svelare troppo di un film che merita di essere scoperto solo nel buio della sala, l’immagine del sottosuolo – con i doppi che ripetono e mimano, senza capirne il senso, gesti e movimenti di chi sta in superficie – racconta in modo plastico e definitivo il meccanismo della cultura di massa e dei suoi rituali, sempre più vuoti.
Pur essendo altrettanto radicale rispetto a Spike Lee, Oliver Stone o Michael Moore, Peele è un cineasta raffinatissimo, incapace di sottolineature semantiche, consapevole che la forza del suo film risiede nel mistero che lo avvolge, piuttosto che nelle risposte esplicite che può dare.
Ancora una volta poi, Peele affronta il problema razziale, con anticonformismo e intelligenza: i Wilson sono infatti una famiglia di colore, mentre i loro amici, i Tyler, sono wasp, ma questo non ha alcun significato all’interno del film, perchè entrambi vivono un contesto borghese, in cui è la posizione sociale a cancellare le eventuali differenze.
Noi è un film che racconta lucidamente un mondo troppo a lungo diviso tra sommersi e salvati, in cui l’ordine costituito nasconde letteralmente, nel sottosuolo, un’altra vita che abbiamo imparato a ignorare.
Prodotto da Peele con Jason Blum e Sean McKittrick, lo stesso trio responsabile di Scappa – Get Out e di BlacKkKlansman, il film ha goduto non solo di un budget più sostanzioso, rispetto a quelli riservati agli horror dalla Blumhouse, ma soprattutto di un tempo maggiore sul set, che Peele ha sfruttato al meglio, grazie alle riprese sul Boardwalk della spiaggia di Santa Cruz e negli spazi ricostruiti a Los Angeles e a Pasadina. Particolarmente curato il sound design e la colonna sonora che, oltre alle musiche originali di Michael Abels, recupera alcune hit eclettiche, dai Beach Boys agli N.W.A., dai Luniz fino a Minnie Riperton, facendone materiale significante, all’interno del film.
Interpretato dal premio Oscar Lupita Nyong’o, nel doppio ruolo di Adelaide e Red, anche qui mostruosamente brava a reggere un gioco duplice, fino all’ultimissimo primo piano, Noi è la consacrazione di una voce limpida e autorevole, che nel dibattito spesso sordo e afono, che ci rimanda la cultura americana di questo nuovo secolo, ci piace continuare ad ascoltare.
Necessario.
In Italia dal 4 aprile 2019.
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