Ron Stallworth, an African-American police officer from Colorado, successfully managed to infiltrate the local Ku Klux Klan and almost became the head of the local chapter.
Spike Lee è arrabbiato. Furioso. E indignato come non mai.
Ed il suo nuovo film BlacKkKalnsman è diventato il catalizzatore di questa rabbia, che dall’america degli anni ’70 si spinge sino alle manifestazioni dell’estate scorsa e alle parole vuote del Presidente in carica.
Il suo film è un pugno in faccia all’opinione pubblica americana: si apre con Rossella O’Hara in Via col Vento, in mezzo ai soldati sudisti e si chiude su una bandiera americana rovesciata, che pian piano scolora nel bianco e nel nero.
Produce il fresco premio Oscar Jordan Peele per Focus Features e Legendary Pictures, una factory di solito specializzata in kolossal.
Ma questo è in un certo senso un film di grandi dimensioni, almeno nelle ambizioni del suo autore.
Lee ha passato tutta la sua carriera raccontando il pregiudizio razziale, senza sconti per i suoi fratelli, ma senza omettere nulla, scegliendo di stare in trincea, in prima linea e facendo spesso del suo cinema un’arma politica e militante. Mancava da Cannes da oltre vent’anni dopo aver portato in concorso il seminale Fa’ la cosa giusta e il bruciante Jungle Fever.
Ci ritorna con uno dei suoi film più incendiari, che ricostruisce la storia vera dell’agente di colore Ron Stallworth della polizia di Colorado Springs, infiltratosi anche grazie al collega Flip Zimmerman, nella colonna locale del KKK.
Fresca recluta nei caldi anni ’70, Stallworth comprende che se i suoi colleghi erano preoccupati della recrudescenza della lotta politica e della rivolta studenstesca, non sembravano molto interessati alle attività degli incappucciati. Rispondendo quasi per scherzo ad un annuncio sulla Gazette locale, finisce per ottenre un appuntamento per essere reclutato dall’Organizzazione.
Ovviamente non può andare lui personalmente all’appuntamento e coinvolge nell’operazione il collega ebreo Flip, il quale, pur riluttante, decide di assecondarlo.
Finiranno per raggiungere i vertici nazionali del Klan, guidato dallo stesso David Duke, che nello scorso mese di agosto sproloquiava di supremazia e razze, con il malcelato appoggio presidenziale.
Stallworth ha un interesse personale in gioco, perchè il KKK sembra aver preso di mira la leader studentesca Patrice, con la quale ha una relazione, cominciata sotto copertura.
Il successo della sua operazione non è solo una questione di giustizia, ma molto di più…
Lo script del film attribuisce retoricamente gli slogan trumpiani ai leader del Klan. O probabilmente è vero il contrario. In ogni caso è evidente che Lee parla di ieri, per raccontare l’America di oggi, mai così divisa, spaccata, fragile e violenta, dopo otto anni di presidenza Obama, che ha paradossalmente – ma forse neppure poi tanto – rinfocolato e inasprito l’odio razziale.
Il film, già molto chiaro, diventa esplicito nella scelta finale di mostrare le immagini dei recentissimi rally dei suprematisti bianchi e dei gruppi Black Lives Matter, segnati da parole di fuoco e violenza incontrollata.
Nessun equivoco, il suo film è un atto politico, una presa di posizione cristallina.
Il cinema sembra purtroppo fare un passo indietro, anche se il film è godibile, molto divertente e di grande intrattenimento, grazie alle interpretazioni di John David Washington e del solito strepitoso Adam Driver, che sembra non fare quasi nulla, ma nel suo understatement, ruba la scena ogni volta che appare sullo schermo.
In un film surriscaldato e inquisitorio, Spike Lee si ricorda di evitare almeno le generalizzazioni più qualunquiste, soprattutto sulla polizia bianca, e di coinvolgere gli ebrei nelle intemerate del Klan, ma certamente la sua non è un’analisi molto sottile nè raffinata, ma un vero e proprio j’accuse.
Lee mette sotto la sua lente anche il cinema e la rappresentazione razzista e streotipata, che fin da Nascita di una Nazione ha fornito il contesto culturale, per le intemerate del Klan. Anche qui non c’è nessuna sottigliezza: il film di Griffith è come un libro di testo, che continua ad ispirare, oggi come allora, le violenze più atroci contro i neri d’america.
In un festival sinora dominato soprattutto dalla malinconia d’amore, il film di Lee si unisce a quello di Loznitsa, nel prendere posizione politicamente, in modo esplicito. Rispetto al più raffinato e complesso Chi-raq, Lee sembra avere questa volta la sola arma dell’invettiva, che purtroppo sovrasta anche il convincente racconto di genere, che tra citazioni della black exploitation, capelli afro e la musica jazz di Terence Blanchard, sembrava già sufficientemente esplicito.
Ma il limite di molti film americani è proprio la passione per le sottolineature, per la semplificazione ad ogni costo, per l’urlo megafono in mano.
Questa volta però queste sottolineature erano necessarie? Il dubbio rimane.
CREDITS
Spike LEE – Director
Charlie WACHTEL – Script / Dialogue
David RABINOWITZ – Script / Dialogue
Kevin WILLMOTT – Script / Dialogue
Spike LEE – Script / Dialogue
Chayse IRVIN – Director of Photography
Curt BEECH – Set decorator
Barry Alexander BROWN – Film Editor
Terence BLANCHARD – Music
Tom FLEISCHMAN – Re-recording mixer
Phil STOCKTON – Sound
CASTING
John David WASHINGTON – Ron Stallworth
Adam DRIVER – Flip Zimmerman
Laura HARRIER – Patrice Dumas
Topher GRACE – Devin Davis
Jasper PAAKKONEN – Felix Kendrickson
Corey HAWKINS – Kwame Ture
Ryan EGGOLD – Walter Breachway
Michael Joseph BUSCEMI – Jimmy Creek
Paul Walter HAUSER – Ivanhoe
Ashlie ATKINSON – Connie Kendrickson
[…] Marco Albanese @ Stanze di Cinema [Italian] […]
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