Il filo nascosto. Recensione in anteprima!

Il filo nascosto ***1/2

Il filo nascosto è l’ottavo film di Paul Thomas Anderson e, come accade ormai puntualmente da Ubriaco d’amore, è un film che spiazza e rilancia ogni riflessione sul suo cinema: ogni volta pensi di aver finalmente afferrato il senso del suo lavoro e ogni volta ne rimani invece stupito, per la capacità camaleontica di cambiare strada, percorso, epoca, stile, paese.

Dopo la trilogia d’esordio di Sydney, Boogie Nights e Magnolia, Anderson sembrava poter essere raccontato come il nipotino prediletto di Altman e Scorsese, con quella coralità così esibita, la macchina da presa ferocemente all’assalto dei personaggi, le sintesi musicali, la volontà di raccontare i non luoghi del gioco d’azzardo, del porno e della televisione americana, con una libertà anticonformista, ma ancora pienamente figlia del suo tempo, di quegli anni ’90, rutilanti e pieni di illusioni.

Ubriaco d’amore è stato il suo primo pugno allo stomaco: due soli personaggi, una storia d’amore, surreale, survoltata, elettrica, apparentemente lontanissima dalle sue corde.

Quindi una pausa lunga cinque anni prima dell’opera capitale, Il petroliere, racconto aspro e senza dolcezze del capitalismo americano delle origini, rapace e brutale, capace di specchiarsi in una religione perfetta per supportarne le ambizioni.

Il suo stile perde qualsiasi vezzo o affanno contemporaneo.

Il viaggio storico prosegue quindi con il magistrale The Master, radiografia della fragilità psicologica e morale di un paese uscito dalla guerra, ma non ancora pacificato con se stesso.

Vizio di forma è l’ultimo capitolo di questa ideale seconda trilogia sulla storia americana, con un detective hippy, immerso nella controcultura della west coast, ormai arrivata tragicamente alla fine, dopo la strage di Bel Air della Manson Family.

Da dove ripartire? Ovviamente da dove non ci saremmo mai aspettati di ritrovare Paul Thomas Anderson. A Londra, all’interno della maison di un grande stilista degli anni ’50, Reynolds Woodcock.

Qui vive con la sorella Cyril, attorniato da una corte di sarte, pronte a trasformare in realtà ogni sua fantasia e ad esaudire ogni suo capriccio.

Lo troviamo una mattina a colazione, infastidito dalla sua ultima compagna, Johanna. Chiede così a Cyril di liquidarla con buoni modi, liberandosi di un fardello diventato inutile. Woodcock è uno scapolo impenitente, un bambino mai cresciuto, assorbito interamente dal suo lavoro: l’albo dei bozzetti al mattino, l’ago e il filo durante la giornata.

La sua vita è tutta racchiusa nelle quattro mura della sua maison. La sua vita non ammette distrazioni e neppure umanità.

Protetto dalla sorella e dalla sua piccola corte fedele, la vita sembra scorrergli accanto, senza mai davvero coinvolgerlo, incapace di mutare la sua routine.

Quando però si concede un weekend in campagna, Woodcock conosce e si invaghisce di una giovane cameriera, Alma, che diventa la sua musa, prim’ancora che una compagna.

Eppure, dopo l’entusiasmo iniziale, la passione sfuma inesorabilmente, così come l’interesse di Woodcock. Ogni occasione è un pretesto per sfogare il proprio fastidio: un coltello, che rimuove le bruciature di un toast, o un cucchiaino, che gira il tè in una tazza. Ogni interruzione diventa molesta, ogni variazione nella sua lunatica concentrazione, un motivo di umiliazione per gli altri.

Eppure Alma non è come le altre donne di Woodcock, in lei c’è una tenacia, che non si ferma davanti a nulla.

Il film di Anderson è tutto chiuso in spazi angusti: la casa-laboratorio posta su diversi piani, l’abitacolo dell’auto sportiva, che Reynolds si diverte a guidare veloce, la soffitta della casa di campagna, dove c’è un’altra sartoria, pronta per ogni ispirazione.

Sovrano assoluto del suo piccolo regno, Woodcock infatti non è a suo agio quando è costretto a confrontarsi con spazi più grandi, che siano la sala dove si celebra il matrimonio di una delle sue migliori clienti o la grand hall dove fugge Alma la sera di capodanno, a festeggiare, insieme a chiassosi sconosciuti, l’arrivo del nuovo anno.

Solo qui il protagonista è finalmente perduto, fuori controllo, incapace di muoversi. Eppure quel controllo assoluto, che esercita sulla sua vita e sulla sua maison, è un’illusione che la sorella Cyril custodisce per lui gelosamente, proteggendolo da ogni avversità, da ogni dispiacere.

Prima dell’arrivo di Alma la sua è la vita di un re nel suo castello, un re che deve trovare lo spazio per creare, naturalmente, ma che deve badare solo a quello, perchè ogni suo desiderio è esaudito, prim’ancora di manifestarsi esplicitamente.

Con Alma tuttavia le cose sono destinate a cambiare, perchè quest’ultima non accetta il ruolo che la storia ha scelto per lei. Personaggio hitchcockiano, per tenacia e complessità psicologica, Alma ribalta completamente il suo destino, lo forza sino alle estreme conseguenze, trasformandosi da una variabile, dal tempo limitato, ad una costante imprescindibile, nella vita di Woodcock.

Così come accadeva anche in The Master, dietro l’apparente centralità del protagonista, si scorgono presenze femminili essenziali, decisive. Qui Anderson è ancor più esplicito: dietro la sicurezza ruvida e ostentata di Woodcock si nasconde una grande fragilità, un desiderio romantico di affidarsi completamente, di lasciarsi andare.

Il film è accompagnato dalle musiche ancora una volta straordinarie e imprevedibili di Jonny Greenwood, che per l’occasione ha composto una vera e propria sinfonia, capace di vestire magnificamente la fotografia, che Anderson ha curato, per la prima volta, personalmente, preferendo ancora la pastosità calda della pellicola 35mm.

Daniel Day Lewis, alla sua ultima interpretazione, prima dell’annunciato ritiro dalle scene, è impeccabile nella capacità di passare dalla noia al fastidio, dall’entusiasmo, al silenzio, dal capriccio all’ottusità, interpretando con sottilissima eleganza un ruolo che sembra cucito su di lui da Anderson, con la stessa cura con cui il suo stilista confeziona i vestiti da sera delle sue facoltose clienti.

Leslie Manville è la sorella Cyril, sempre impeccabile, discreta, silenziosa, capace di imporsi, senza quasi mai proferir parola.

Non da meno è la sorprendente attrice lussemburghese Vicky Krieps, sinora impegnata in piccole parti, e qui invece capace di conquistarsi uno spazio centrale tra due interpreti di grande esperienza, proprio come accade alla sua Alma.

Gli evidenti richiami hitchockiani, sia nella trama che ricorda Rebecca, sia nei nomi scelti per i suoi personaggi, non traggano in inganno: Anderson continua nella sua ricerca di uno stile interamente originale, unico, personalissimo, capace di dialogare soprattutto con se stesso, nel tentativo costante di superarsi.

E’ un grande melò amoroso Il filo nascosto, un melò che si nasconde prezioso e inaspettato tra le pieghe del racconto, proprio come i messaggi che Woodcock occulta nelle fodere e nei risvolti dei suoi abiti.

Anderson lavora sulle asimmetrie dell’amore, sull’imperfezione matrimoniale, costruendo sulla tensione crescente tra Alma e Reynolds, il suo raffinatissimo studio di caratteri, virato al nero.

Imperdibile. In Italia uscirà il 22 febbraio 2018.

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