Il discorso del Re **1/2
Se avessi potuto esimermi dallo scrivere di questo film di Tom Hooper l’avrei fatto molto volentieri.
Purtroppo il successo fulminante, che sta avendo nelle sale inglesi ed americane, la vittoria al Toronto Film Festival ed in tutti i premi di categoria, che precedono un ormai inevitabile Oscar, mi spingono a scrivere almeno qualche parola.
Avrei preferito non farlo, per il semplice fatto che non c’è davvero molto da dire su Il discorso del Re. Si tratta di un discreto film di stampo televisivo. Girato dal giovane Hooper con mano salda come una sorta di piece teatrale, in cui sembra di spiare dal buco della serratura gli illuminati o dissoluti sovrani inglesi di inizio secolo.
Il film racconta l’ascesa al trono di Giorgio VI, Bertie per i familiari. Secondogenito e quindi verosimilmente escluso dalla successione, dovette subentrare al fratello Edoardo, quando quest’ultimo, più interessato alle grazie dell’americana divorziata Wallis Simpson, che agli impegni dell’imminente Seconda Guerra Mondiale, preferì abdicare.
Bertie però si esprimeva a fatica e balbettava i discorsi ufficiali: un limite imperdonabile in un’epoca, che cominciava ad essere dominata dai mezzi di comunicazione radiofonica e cinematografica.
La comunicazione prima di tutto. Ed allora Bertie si sottopone all’umiliante trafila da logopedisti più o meno ortodossi, fino a che non incontra l’australiano Lionel Logue, capace di vincere i suoi limiti, le costrizioni sociali ed educative, e le sue paure, consentendogli di ritrovare una voce, grazie a metodi non convenzionali e spregiudicatezza poco british.
Il film è tutto qui. Letterale e straighforward come pochi. Nessuna metafora per Hooper, nessun sottotesto, nessun tentativo di indagare il ruolo del Re o i misteriosi discorsi, che puntualmente si materializzano nelle sue mani, scritti da qualcuno, che non vedremo mai.
Non c’è neppure il tentativo di creare un curioso parallelo con il ruolo dell’attore, in rapporto alla macchina cinematografica ed alla rappresentazione teatrale, evidente sin dalla prima scena.
No, nel film c’è solo il tormentato rapporto del futuro regnate con la moglie perfetta e comprensiva, con le figlie ancora piccole e con il logopedista australiano. Churchill appare solo come un gustoso battutista e poco più, mentre Hitler, la guerra e la gente comune sono solo uno sfondo, spesso digitale.
Hooper si limita ad illustrare con grandangoli continui, per esasperare il senso di inadeguatezza, anche fisica, del principe, senza voce e senza parole. E non indugia neppure troppo sulle figuracce reali.
Gli attori eseguono dignitosamente il copione, senza grandi sussulti: Firth, bravissimo in altre occasioni, qui è solo onesto e professionale, un corpo indiscutibilmente regale a cui mancano le parole.
Helena Bonham Carter torna alle illustrazioni di cartoline, con cui aveva cominciato la sua carriera, prima che Fincher le regalasse uno dei più bei personaggi femminili degli ultimi vent’anni: la Marla Singer di Fight Club.
Quanto a Geoffrey Rush è come al solito bravissimo, ma rischia continuamente di rubare la scena al vero protagonista.
Il discorso del Re nasce vecchio, vecchissimo. E’ un film imbalsamato, che sarebbe risultato conformista e conservatore già 50 anni fa. Oggi paradossalmente, nel panorama desolante delle produzioni mainstream, può passare per originale e ben recitato, ma siamo lontani anni luce dal cinema.
Questa è correttezza televisiva, buona per una noiosa prima serata casalinga. Film di stampo pedagogico, informativo: non c’è una goccia di vero sangue dentro le vene del copione di Seidler, timido e rispettosamente monarchico.
L’unico elemento inconsueto è nella rappresentazione senza glamour e senza compassione di quello che molti rotocalchi considerano “l’amore del secolo”, cioè quello tra Edoardo VIII e Wallis Simpson, mostrati in tutto il loro egoismo, in tutto il loro squallore ed in tutta la loro crassa ignoranza, metre bevono champagne del ’23, in un’Europa precipitata dentro l’orrore nazista.
Ci sarebbe voluta la penna di Peter Morgan (The Queen, Frost/Nixon, Il maledetto United), per rendere vibrante e vitale il confronto tra Logue e Bertie, facendolo uscire dalle stanze polverose dei ricordi e liberandolo dalla leziosa perfezione scenografica, che ha imbalsamato tanto cinema inglese.
Che un film così possa aspirare a vincere l’Oscar dice molto di quei premi e di chi li assegna.
Io continuo a pensarla diversamente.
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