James Foster, giovane e atletico scrittore senza ispirazione nè talento, è in vacanza con la moglie Em, ricca ereditiera di un impero dei media, in un resort ospitato nel paese immaginario di Li Tolqa.
Tra ozi e mollezze, rotti solo da una inconsueta protesta degli abitanti locali, Jame conosce Gabi, la giovane moglie di un architetto svizzero Alban Bauer, che si dichiara una sua ammiratrice.
Dopo aver condiviso la serata a cena in un ristorante asiatico, i Bauer invitano i Foster ad una gita in auto fuori dal resort, su una spiaggia solitaria.
Al ritorno tuttavia, mentre James è alla guida dell’auto investe inavvertitamente un contadino. I quattro fuggono senza prestare soccorso. L’indomani la solerte e implacabile polizia locale li arresta e ottiene dai Bauer una piena confessione, confermata da Em: James deve pagare.
La sentenza è immediata e la giustizia assomiglia ad un arcaico rituale di vendetta con i figli della vittima che si incaricano di trucidare il colpevole.
Gli stranieri che possono pagare hanno tuttavia una possibilità in più: un loro esatto clone può prendere il loro posto sul patibolo.
Il terzo film di Brandon Cronenberg è quello che più decisamente sembra allontanarsi dalle suggestioni paterne. Satira sociale e ricerca identitaria, virata al nero, Infinity Pool abbandona i cascami da body horror di Possessor e anche una certa ossessione per il sangue di Antiviral.
Il regista sembra piuttosto rimestare i temi di The Most Dangerous Game, anche se con una certa confusione nella ricerca di una sua precisa originalità, soprattutto nella prima parte, che continua il discorso sulla fama, il successo e il suo feticismo del suo esordio.
Quando i Foster arrivo al resort la macchina da presa compie una significativa rotazione sull’asse di 180°. Il mondo è sottosopra a Li Tolqa.
Tuttavia il film scopre le sue carte un passo alla volta, mascherando le sue intenzioni e ponendo lo spettatore nella stessa condizione di James, vittima inconsapevole di un gioco guidato da altri. Un gioco che cambia molte volte.
L’incidente è una casualità, ma il suo destino era già segnato: è lui il target della noia di un gruppo di ricchi occidentali che hanno subito, per vizio o per accidente, il suo stesso trattamento, finendo per anestetizzare il loro senso di morte.
In un mondo corrotto in cui tutto si può comprare, persino la propria impunità, i turisti sono come i cacciatori di frodo della savana: l’adrenalina, il risveglio di istinti primari brutali e primitivi trascinano James in una spirale da cui non riesce più ad emergere, perdendo forse tutto quello che aveva ottenuto, forse senza meriti apparenti.
Cronenberg spinge al limite i suoi personaggi per rendere la sua allegoria ancor più allucinata. L’impressione iniziale del resort protetto da guardie armate, barriere e filo spinato muta radicalmente alla fine: i barbari da tenere lontani siamo forse noi occidentali, predatori senza rispetto e senza pietà, trasformati in zombie capaci di tutto, salvo rientrare rispettosamente nei ranghi quando il tempo della villeggiatura è terminato.
Ma non per tutti è lo stesso. E qualcuno si è forse perduto per sempre.
Brandon Cronenberg spinge i suoi attori costantemente in overacting, sfrutta la fisicità asettica e ottusa di Alexander Skarsgård, un big jim impeccabile, trascinato in una bolgia infernale senza riscatto possibile. Ugualmente controverso il contributo di Mia Goth, angelica e mefistofelica, innocente e volgare, ingenua e sinistra: lanciata da Von Trier in Nymphomaniac, dopo i ruoli in Suspiria e High Life e quelli per Ti West in X e Pearl l’attrice inglese è diventata un volto di culto, per le sue scelte inconsuete e il carattere ambiguo e spesso fortemente erotico dei suoi personaggi. Qui tuttavia la sua interpretazione è piuttosto manichea, priva di grandi sfumature.
Infinity Pool mostra ancora tutti i limiti del suo regista, acerbo soprattutto in termini di scrittura. Qui occorre una certa sospensione dell’incredulità per assecondare le derive del suo gioco. Cronenberg poi si fida troppo delle sue immagini, delle sue inquadrature con i personaggi messi ai margini, con le linee di frattura sempre ostentate, con le luci usate costantemente in senso antinaturalistico, con i fumi delle droghe allucinogene a obnubilare le coscienze e maschere mostruose che rivelano anime torturate: tutte cose già viste.
Il montaggio sembra inseguire formalismi che non funzionano mai e asseconda un gusto arty, piuttosto irritante. Si ha quasi l’impressione che il maledettismo del film si faccia un po’ maniera. Complessivamente, i tre film di Brandon non lasciano intravvedere grande talento nè brucianti necessità narrative.
Confuso.