Possessor

Possessor **1/2

Holly, una giovane donna di colore, allo specchio, si infila una sorta di lungo ago, collegato ad un piccolo meccanismo, sulla cima della testa. Poi lo rimuove e vestita da hostess partecipa ad una festa.

Qui, preso un coltello, lo infila nella gola di un corpulento avvocato e poi lo pugnala senza pietà al torace. Nella borsa ha una pistola, per suicidarsi, ma non ci riesce. Chiede di essere disconnessa.

La polizia accorsa la uccide a sangue freddo.

Scopriamo così che il corpo e la mente di Holly era come posseduta attraverso quell’ago e un grande facepod, da Tasya Vos un killer a contratto, di una corporation segreta, che si occupa di omicidi eccellenti.

Girder, il capo di Tas si occupa del suo debriefing, una volta tornata in sè, per accertarsi che la personalità che ha interpretato non abbia lasciato tracce nella sua identità.

Tas ha un figlio piccolo e un marito a casa, che la aspettano, ma un nuovo importante contratto, per uccidere il magnate di una grossa compagnia hi-tech e sua figlia Ava, trascina Tas nei panni di Colin Tate, il tormentato e affascinante spacciatore, con cui è fidanzata la ragazza.

Il secondo film di Brandon Cronenberg, dopo il modesto Antiviral, è un body horror che si avvicina pericolosamente alle suggestioni e alle ossessioni paterne.

In un futuro distopico in cui la tecnologia è contemporaneamente avanzatissima e old style, in cui le automobili sono quelle degli anni ’50, i telefoni cellulari sono le piccole shell anni ’90 e visori e mouse hanno forme low fi, l’idea di impossessarsi parassitariamente del corpo di un innocente per commettere i crimini più turpi è certamente degna dei primi magnifici lavori del regista canadese.

Andrea Riseborough è l’androgina Vos, sempre più confusa dalle interferenze personali del suo lavoro. Quel poco che sappiamo di lei è racchiuso nel test che le sottopone Girder, ma come in Blade Runner, resta il dubbio che si tratta solo di un nuovo inganno.

Chi è davvero Tas? La sua identità è indefinibile, il suo corpo trasparente. Ma i suoi lavori, un tempo perfetti, cominciano a scontare qualche imperfezione: emergono l’ossessione per il sangue delle sue vittime, l’incapacità di portare a termine gli omicidi-suicidi, la confusione con la volontà altrui, fino ad arrivare allo sdoppiamento schizofrenico della personalità.

La fotografia asseconda le coloratissime digressioni di Cronenberg, i suoi incubi più disturbanti. Che pure non distraggono da un film che ha un soggetto solidissimo, un piccolo gruppo di personaggi coerenti a cui bastano pochi tratti per essere inquadrati.

Il lungo terzo atto finale riesce ad essere altrettanto convincente e compiuto, segno di un lavoro di scrittura che non si è limitato a raccogliere una serie di suggestioni iniziali, ma le ha spinte sino ad integrarsi in un racconto di genere, che unisce sapientemente la confusione psicologica e le atrocità fisiche ad una critica della tecnologia e delle sue derive amorali.

Cronenberg non dimentica mai di essere all’interno di un meccanismo di genere, mantiene il ritmo narrativo sempre alto, la tensione incalzante e non si nega scene di violenza brutale e di sesso piuttosto esplicito.

Il film è piuttosto brutale e disturbante ed ha momenti di puro horror, tra i quali si segnala anche una sorta di inquietante leatherface.

Cronenberg tuttavia non perde mai il controllo rigoroso del materiale incandescente, che sta mettendo in scena, dimostra un certo talento visionario e usa i cromatismi della fotografia elettrica di Karim Hussain, per immergere in dominanti rosse, gialle e blu, gli incubi di Tas, lasciando invece al bianco e al nero gli spazi asettici della società, in cui lavora la protagonista.

Il cast è di primissimo livello con Christopher Abbott nei panni del corpo ospite e Jennifer Jason Leigh in quelli del capo Girder, mentre Sean Bean è il magnate da uccidere, Tuppence Middleton è la figlia Ava e Gabrielle Graham è la Holly, protagonista della scena iniziale.

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