Primo episodio di Cinque giorni al Memorial. La dottoressa Susan Mulderick, responsabile della sicurezza del Memorial Hospital di New Orleans, non può credere a ciò che ha appena scoperto sfogliando le linee guida da seguire durante le emergenze. Le istruzioni operative per evacuare lo stabile in caso di una grave inondazione, semplicemente, non esistono. Quel giorno non è un giorno come un altro. È il 29 agosto 2005 e fuori imperversa il caos. La città è flagellata da molte ore dall’uragano Katrina e la sua popolazione, in prevalenza nera, è stremata. I soccorsi incomprensibilmente tardano ad arrivare e i telegiornali riportano episodi di saccheggi per mano di bande armate, oltre alle notizie di presunte violenze sessuali ai danni di medici e infermiere. Nello stesso episodio la dottoressa Anna Pou si presenta in reparto con una borsa piena di scatolette di tonno e un’apriscatole…
La serie Apple TV+, basata sull’omonimo libro di Sheri Fink pubblicato nel 2013 e versione “espansa” di un fortunato articolo che valse alla giornalista il premio Pulitzer, racconta l’inferno dei vivi e il peso terribile di una scelta. Un presagio terribile si allunga come un’ombra sui più fragili, fino a diventare una sentenza di morte inappellabile. La catastrofe piomba sulle vite di duecento dottori e infermieri del Memorial, una struttura che in quel momento ospita duemila degenti, oltre al personale e ai malati “fortunati” della Lifecare, una clinica privata situata all’ultimo piano del palazzo.
Dietro le quinte di Cinque giorni al Memorial troviamo due nomi di assoluto valore: Carlton Cuse, storico showrunner di Lost, e John Ridley, vincitore di un premio Oscar nel 2014 per la sceneggiatura di 12 anni schiavo. La serie è realistica e crudele. Le domande di natura etica investono lo spettatore man mano che ci si avvicina all’inevitabile punto di non ritorno. Riprese reali di quei giorni, inserite in apertura o chiusura di episodio, fanno da controcanto a una finzione che, comunque, è la fedele trascrizione di fatti accaduti. La narrazione è inframmezzata anche da fugaci e dolorose anticipazioni dell’immediato futuro: riprese frontali di medici sottoposti a interrogatori avviati dal Procuratore della Louisiana, volti affranti, incapaci di trattenere le lacrime, parole smozzicate, incapaci di fornire una spiegazione razionale alla logica impazzita degli avvenimenti.
Avvenimenti imprevedibili? Fino al 30 agosto la situazione è seria, certo, ma non disperata. Addirittura, tra le nuvole si riaffaccia il sole. È un’illusoria promessa di quiete. Nessuno ha avvisato il personale del Memorial del pericolo imminente, un pericolo perfino peggiore del vento, arrivato a toccare i 280 chilometri orari, dei saccheggi, dei cecchini appostati sui tetti e della scarsità di cibo. Gli argini dei fiumi, infatti, sono crollati, riversando per le strade un quantitativo di acqua che presto toccherà la mostruosa altezza di quindici metri.
Quella mattina Anna Pou manifesta una preoccupazione. Un suo ex fidanzato si è aggiunto, come volontario, allo staff sanitario dell’ospedale. Se dovesse incrociarla nei corridoi del Memorial noterà la sua stanchezza o, peggio, la giudicherà invecchiata? Per evitare un inconveniente del genere, Anna Pou trova il tempo di truccarsi davanti allo specchio del bagno di servizio. A posteriori, anche una frivolezza del genere somiglierà a una colpa. Sensibile, attenta, umana, Anna Pou è una donna di fede, consapevole dei rischi in cui versa un corpo malato in circostanze così infami, una donna che si appella a Dio per implorare una benedizione, non tanto per sé, quanto, appunto, per i suoi pazienti. Religiosa, credente, comunque non fatalista, Anna Pou sa di avere una responsabilità. Tutti, d’altronde, la considerano un’ottima chirurga.
Cinque giorni al Memorial ci introduce con rapidi tocchi impressionistici nel clima di crescente inquietudine che serpeggia tra le mura dell’ospedale. L’acqua penetra nei sotterranei minacciando il pronto soccorso, il segnale telefonico si disconnette (a proposito, che strano effetto rivedere, tra le mani del dottor King, un glorioso Blackberry…) e l’aria si fa irrespirabile. I medici si chiedono fino a quando i generatori di emergenza potranno garantire il funzionamento dell’aria condizionata. Segnali inequivocabili di un crollo imminente. Dal terzo episodio, gli eventi precipitano.
I fatti decisivi sono ricostruiti con puntiglio e pudore. La serie mette a fuoco gli ingranaggi di un sistema fallimentare. L’ospedale è isolato. Il caldo divampa. Senza elettricità gli apparati medicali funzionano. Il residuo di energia va razionato, stabilendo una prima gerarchia, una prima divisione tra salvati e sommersi. La Guardia Nazionale tergiversa. Le poche imbarcazioni che si spingono fino al Memorial riescono a portar via un pugno di persone. Ai soccorritori volontari non viene dato il permesso di avvicinarsi alla struttura. La classica l’ultima spiaggia è l’eliporto, in disuso da diciotto anni. La scala arrugginita che conduce alla malferma piattaforma di atterraggio assurge a simbolo di una criminale incuria. I volti dei malati, piombati nei loro letti, pietrificati nell’incertezza, in balia di una sorte assassina, ci interrogano.
L’arrivo di un ufficiale del Dipartimento di Salute Pubblica (“volete sapere chi comanda in città? Nessuno.”), nel quarto episodio, rappresenta la pietra tombale sull’ingenua, assurda, giusta speranza fino ad allora cullate dal personale del Memorial: quella di poter trarre tutti in salvo. L’ufficiale trasmette un ordine dettato da esigenze di forza maggiore. Con la distribuzione dei braccialetti, di quattro colori diversi, i medici dovranno stabilire un ordine di priorità. In fondo alla scala resteranno i malati terminali, gli obesi, i non deambulanti, con un segnale nero al polso a indicarne il destino di condannati a morte.
Un paziente di centosettanta chili non può essere trasportato per sette rampe di scale, ma un paziente di centosettanta chili non dovrebbe mai trovarsi nella condizione di dover essere trasportato lassù, a braccia, da infermieri già sfiniti, attraverso sette rampe di scale, per tenere accesa la fiammella della vita.
Le condizioni, le circostanze, il contesto: in Cinque giorni al Memorial le colpe della politica emergono con nettezza. In una scena, vediamo l’aereo presidenziale sorvolare New Orleans. Dall’alto, da una comoda distanza, cosa avrà visto George Bush Jr? Difficilmente si sarà accorto del sudore e delle lacrime degli infermieri. Difficilmente avrà visto soffrire persone innocenti. Nel dolore, nel rimorso di una guardia di sicurezza nera costretta ad allontanare uomini, donne e bambini neri alla ricerca di una possibile salvezza tra le mura del Memorial, nelle parole del dottor King (“loro avevano le pistole, loro avevano il potere”, dove loro sono i suoi colleghi bianchi decisi a difendere la “fortezza” dall’assalto dei “barbari” a ogni costo), nella capziosa selezione di immagini che la televisione pubblica spara sugli schermi, dritto in faccia a milioni di americani, nella decisione governativa di classificare l’Ospedale tra le priorità “secondarie”, leggiamo lo stato delle cose. Leggiamo il razzismo, leggiamo la violenza esercitata contro i poveri, leggiamo l’indifferenza del potere, centrale e locale, per chi è rimasto indietro.
Su Anna Pou, nelle settimane successiva alla tragedia, si stringe il focus delle indagini condotte dai solerti agenti Arthur Schafer e Virginia Rider. Cosa accadde l’ultimo giorno, prima dell’evacuazione forzata ordinata dalla polizia di New Orleans? Perché la dottoressa si aggirava nelle stanze dei malati, incluse quelle appaltate alla clinica Lifecare, armata di fiale e siringhe? Quarantacinque morti in ventiquattro ore sono troppi, un conto non giustificabile ricorrendo alla spiegazione di semplici cause naturali. Quando il dottor King dice agli investigatori “non ho potuto impedirlo”, di quale impedimento si tratta? Che quelle persone morissero o che venissero uccise intenzionalmente?. Nelle menti degli investigatori, interrogatorio dopo integgoratorio, affiora un sospetto.
Inutile girarci attorno: Anna Pou, con l’avallo silente di alcuni colleghi, praticò l’eutanasia su decine di soggetti seriamente malati. Per la precisione, una forma di eutanasia in assenza di esplicito consenso. La serie ci lascia liberi di esprimere un giudizio sul suo operato. La decisione di iniettare un combinato letale di morfina e altre sostanze nelle vene dei pazienti più gravi: segno di estremo cinismo o di estrema pietà? Di sicuro, la brava Vera Farmiga, attrice versatile, è stata abile nel costruire un personaggio complesso, in cui alberga, come detto, uno spirito di misericordia, una fede vera e convinta, un desiderio di prendersi cura del prossimo. Tuttavia, ci si può sostituire a Dio? Da una parte, nella dottoressa vi è la coscienza della resa, e con la resa, il bisogno emergente di alleviare la sofferenza di chi, altrimenti, sarebbe morto di stenti, in una condizione atroce. Una prospettiva insopportabile, certo, che non può però farci dimenticare l’altra parte del ragionamento, l’elemento deontologico, nonché etico, laico, della questione. Nessuno dei malati fornì, appunto, il consenso per accelerare la propria fine.
Colpisce il parallelismo tra due immagini, le carcasse degli animali di compagnia soppressi con una puntura al cuore e l’ammasso di corpi stipati nella cappella dell’ospedale. Colpisce la frase paradossale, se non oscena, con cui la polizia taglia il cordone ombelicale tra i familiari e i pazienti, chi è rimasto indietro se la caverà da solo. Colpisce, nel sesto episodio, la scena delle telefonate dei medici alle famiglie delle vittime, un rituale organizzato dalla Tenet Helthcare Corporation (la Holding sanitaria del Memorial) accompagnato da indecenti formule stereotipate: la persona a lei cara è stata curata in ogni momento, la persona a lei cara è stata identificata e coperta, la persona a lei cara è stata collocata nella nostra cappella.
Nella memoria dello spettatore resta anche il volto emblematico di Vera Farmiga, perennemente imbevuto di sudore, fuori fuoco, perso nelle nebbie di una fatica immane. Tra gli altri, Susan Mulderick è interpretata da Cherry Jones, grande attrice di Broadway, insignita con due Tony Awards e protagonista delle stagioni sette e otto della serie 24 Fox. Cornelius Smith Jr, noto soprattutto per Scandal, è Bryant King, il principale “dissidente”, rispetto alle pratiche di Anna Pou, all’interno del Memorial. Robert Pine, lo Stephen Logan di… Beautiful (!) interpreta l’anziano dottor Horace Baltz. Adepero Oduye, attrice apprezzata in un paio di pellicole di Steve McQueen, è l’instancabile l’infermiera Karen Wynn. Michael Gaston (Prison Break, The Mentalist) è l’agente Schafer, uomo integerrimo alle prese con un lutto difficile da elaborare.
Cos’era giusto? Cos’era sbagliato? Nell’ultimo episodio è riscostruito il dramma legale, fino al suo esito favorevole ad Anna Pou. Per il Grand Jury, le prove raccolte sul caso non risultarono sufficienti per iniziare un processo contro di lei.
Dalla serie si evince che “la dolce morte” somministrata dalla dottoressa fu un’azione ideata in solitudine, in una situazione di sfacelo generalizzato, nella convinzione (in quale misura corrispondente al vero?) che non vi fosse più nulla da fare. Quei giorni al Memorial, cronaca di una tragedia annunciata, furono l’inferno in terra. In alcuni momenti, inevitabilmente, la serie ridesta in noi il ricordo del periodo peggiore dell’emergenza COVID. Sia maledetto quel paese che ha bisogno di eroi, eppure chi, più del medico, sa essere eroe? Nessuno può sostituirsi a Dio, è vero, ma nemmeno Dio può sostituirsi all’uomo, al simile che cura il suo simile sollevandolo dal peso del male.
Titolo originale: Five Days at Memorial
Numero di episodi: 8
Durata: tra 40 e 57 minuti l’uno
Distribuzione: AppleTv+
Uscita: 12 agosto – 16 settembre 2022
Genere: Medical Drama, Legal Drama
Consigliato a chi: preferisce le scale all’ascensore, conosce l’etimologia della parola “coroner”.
Sconsigliato a chi: al ristorante si sente osservato, non ama ricevere telefonate di lavoro quando è in vacanza.
Letture parallele:
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Una scelta in apparenza sbagliata, a pensarci bene, lo è anche nella realtà? David Edmonds, Uccideresti l’uomo grasso? Il dilemma etico del male minore, Cortina editore.
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La fine del sogno americano in una trilogia letteraria memorabile: Jesmyn Ward, Salvare le ossa – Canta spirito canta – La linea del sangue, NN Editore.
Un oggetto iconico: l’idrometro.
Un gesto: una carezza.