Esterno notte

Esterno notte ***1/2

“E’ oggi che ci è dato vivere.
E’ oggi il tempo della responsabilità”.

A distanza di quasi vent’anni dall’epocale ricostruzione poetica del rapimento di Aldo Moro, che Bellocchio ci ha regalato con Buongiorno, notte, il regista di Bobbio torna a raccontare, da una prospettiva diversa e polifonica, i 55 giorni della prigionia del presidente della Democrazia Cristiana.

La serie, che arriverà a cinema in due parti e poi in autunno sulla Rai, è composta da sei puntate, la prima e l’ultima sono dedicate al sequestro e all’esecuzione e ruotano attorno alla figura di Moro, mentre le quattro centrali raccontano fondamentalmente la sua assenza, attraverso le parole e le azioni di alcuni dei personaggi chiave di quei due mesi di cattività, che hanno sconvolto la storia italiana del secondo dopoguerra: innanzitutto Francesco Cossiga, allora Ministro dell’Interno, delfino di Moro e suo giovane collega di partito, poi Papa Paolo VI, amico personale del politico democristiano e di sua moglie, reso fragile dalla malattia, quindi Adriana Faranda, una dei capi della colonna romana delle BR, che partecipò al sequestro ma cercò forse di salvare l’onorevole dall’esecuzione. Infine, prima del racconto straziante della confessione e dell’esecuzione, un capitolo è dedicato a Nora, la moglie di Aldo Moro, l’ultima ad arrendersi all’inevitabile.

Com’è evidente sin dal titolo, l’idea di Bellocchio questa volta è quella di raccontare il sequestro dal punto di vista di chi stava fuori dalla prigione di via Montalcini, impegnato nel tentativo, non sempre sincero, di salvare la vita allo statista democristiano.

La serie è stilisticamente vicina al Traditore nella sua solidissima costruzione drammatica e nella scansione dei tempi, allontanandosi dall’immaginazione folgorante e paradossale del capolavoro del 2003.

La serie si apre tuttavia come se ci trovassimo ancora nell’universo di Buongiorno, notte: quel sogno impossibile di liberazione continua qui con Moro vivo, graziato dalle BR, in ospedale, dove accorrono preoccupatissimi Andreotti, Zaccagnini e Cossiga. Le parole con cui li accoglie il presidente non potrebbero essere più taglienti e vengono in parte proprio dal memoriale lasciato dallo stesso protagonista.

Poi il nastro si riavvolge e ricomincia in quei giorni convulsi del marzo 1978, con le trattative per la nascita del governo del Compromesso Storico, guidato da Andreotti: un passo voluto da Moro con grande lungimiranza democratica, nonostante i timori americani, le perplessità del Papa, le rivendicazioni anticomuniste del suo partito e le resistenze di Berlinguer, che vedeva assai poco cambiamento nei nomi che gli venivano sottoposti.

La prima puntata racconta con una forza evocativa impareggiabile non solo il Moro statista e uomo pubblico, ma anche la tenerezza e le idiosincrasie del padre e del marito, le sue notti insonni, le sue lezioni universitarie, le coccole al nipotino. Qui Bellocchio si supera e trova in Gifuni l’interprete commosso e commovente di un eroe tragico che, come sottolinea il Requiem di Verdi, è destinato a portare la croce per tutti. Un eroe che sembra prefigurare il proprio destino: poco tempo prima del sequestro compra una piccola cappella funeraria, suggerisce poi alla moglie un buon notaio in caso di necessità, infine rifiuta l’auto blindata.

La serie si fa più tradizionale negli episodi centrali, che alternano prospettive differenti sul sequestro, ma ritrova la sua dimensione più intima nel ritorno in famiglia, con gli episodi finali dedicati a Noretta e di nuovo a Moro, fino all’esecuzione della condanna brigatista.

Bellocchio mostra senza alcuna pietas una classe politica democristiana impotente, sorda, se non complice, imbelle e disumana, che segue il solito mefistofelico Giulio Andreotti, architetto di quella teoria della “fermezza”, che sacrificò sull’altare della ragion di stato, la vita del più brillante dei “cavalli di razza”.

Non ne esce meglio il PCI di Berlinguer, sempre troppo debole e subalterno, incapace di comprendere che la morte di Moro non avrebbe segnato la loro distanza dalla violenza terrorista, ma avrebbe invece chiuso un’intera stagione, allontanando il principale partito d’opposizione dal governo del Paese per ancora un ventennio.

Più volte ritornano nel film immagini dell’altare della patria, così come avveniva in L’ora di religione: ma quale nazione, quale Stato, quale patria può lasciar morire uno dei suoi uomini migliori, in nome della sua stessa integrità, sembra chiedersi ancora il regista.

Al Bellocchio di oggi però mi pare interessi soprattutto la dimensione umana dei personaggi che racconta, che gli sceneggiatori Stefano Bises, Ludovica Rampoldi e Davide Serino assecondano con grande maestria, dipingendo per ciascuno un ritratto vivido, rotondo, dalle tinte nette, quasi che fossero tutti interpreti di un grande melodramma.

Nessuna manifestazione pubblica o cerimonia o discorso: nessun lutto nazionale, né funerali di Stato o medaglia alla memoria. La famiglia si chiude nel silenzio e chiede silenzio. Sulla vita e sulla morte di Aldo Moro giudicherà la storia“: queste le ultime volontà dello statista democristiano. Che stonano con quella cerimonia di stato celebrata senza feretro a San Giovanni in Laterano di cui restano le immagini dei politici del tempo, raccolti ipocritamente attorno ad un uomo, che nel momento ultimo si è voluto sottrarre al loro abbraccio.

L’assenza di Moro, durante quei 55 giorni si protrae anche dopo il ritrovamento di via Caetani, quasi a segnare una distanza definitiva, che la prigionia ha reso evidente e non più colmabile, con quel mondo che l’onorevole aveva frequentato sin dall’Assemblea Costituente.

Il Moro di Gifuni confida in ultimo al suo confessore: “Sarei pazzo se non volessi vivere, non voglio morire senza aggrapparmi alla vita. Ho rinunciato a tutte le cariche, perché dovrei rinunciare anche alla vita?”.

Nel personale, Bellocchio trova il politico, riuscendo a coniugare l’esigenza di una ricostruzione storica stupefacente con le necessità del cinema di reinventare la realtà per essergli davvero fedele.

Epocale.

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