Il Decalogo di Krzysztof Kieslowski è stato distribuito finalmente su Amazon Prime Italia – sia pure in una versione non restaurata – con la stessa distratta attenzione, che si riserva alle vecchie serie del passato.
Si tratta tuttavia di un errore imperdonabile.
Perchè Il Decalogo – per quelli che l’hanno visto nel corso degli anni, a partire dalla sua uscita italiana nel 1989, e per coloro che vorranno riscoprirlo ora – resta uno dei capolavori assoluti del cinema europeo del Novecento, un’opera-mondo, misteriosa, enigmatica, affascinante, intrisa di riflessioni sulla giustizia, sulla morale, sulla fede, sul desiderio, sull’amore.
Presentato allora come “un film in dieci episodi“, anche se girato per la televisione polacca tra il 1988 e il 1989, Il Decalogo è il segno di un regista profondamente, disperatamente umanista, che si interroga continuamente sul senso del suo lavoro e sui limiti del suo universo narrativo, che vive una realtà opprimente e tetragona, eppure non smette di esplorarne le linee di frattura, le incongruenze, gli spazi di libertà.
I dieci episodi rivisti oggi, in un mondo piegato dallo spettro della povertà e della crisi, preda di istinti xenofobi e guidato da populismi e regimi oppressivi, che mal sopportano il dissenso, ci appaiono ancor più necessari, urgenti, brucianti, quasi.
E questo accade perchè Il Decalogo e gli altri film di Kieslowski raccontano magnificamente la condizione umana, la sua fragilità, il suo essere continuamente in discussione.
Spesso gli episodi sono costruiti secondo una logica oppositiva, che mette a contrasto due personaggi, due visioni della storia, due interrogativi morali o semplicemente due desideri.
Altrettanto spesso il finale rimane aperto: in un mondo, che sembra aver abbandonato ogni spiritualità, è il dubbio a farsi strada e a revocare ogni provvisoria certezza.
Non c’è neppure spazio per la Provvidenza manzoniana, quanto piuttosto per un rigoroso silenzio, che forse si incarna nel testimone muto, che attraversa quasi tutti gli episodi: ogni intervento esterno assume allora la forma del Caso, capace di indirizzare, talvolta, il destino dei personaggi.
La scelta di affidare a nove diversi direttori della fotografia la luce dei dieci episodi non fa che accentuare questa capacità di interpretare la realtà, secondo un prisma molto ampio di sensibilità.
La storia del Decalogo non nasce tuttavia dal caso, ma dall’idea – condivisa con lo sceneggiatore Krzysztof Piesiewicz, con cui aveva già scritto l’epocale Senza fine e con cui avrebbe collaborato per tutti i film successivi – di prendere spunto dai dieci comandamenti, quelli rivelati da Yahweh a Mosè, sul Monte Sinai, declinandoli alla sensibilità radicale, di chi aveva passato tutta la vita nella Polonia comunista, a combattere la violenza di stato, il sopruso, il conformismo, l’ingiustizia.
Piesiewicz era un avvocato, difensore dei dissidenti politici. Le questioni morali, il ruolo della giustizia, il valore della morte e del sacrificio: nel Decalogo, i comandamenti sono solo lo spunto, per affondare il bisturi nel corpo vivo dell’Europa alla vigilia della caduta del Muro, nelle sue contraddizioni, nelle sue speranze, nelle sue profonde delusioni.
Breve film sull’uccidere, ovvero il quinto comandamento, viene presentato, prima degli altri, al Festival di Cannes nel 1988 in forma più lunga e come film autonomo, vincendo il premio della giuria e quello della Fipresci, prima di essere scelto come miglior film dell’anno nella prima edizione degli European Film Awards.
Il suo successo consente di rivelare finalmente il lavoro ventennale del documentarista nato a Varsavia e formatosi alla leggendaria Scuola di Cinema di Lodz.
Nelle sale arriva poi anche il sesto episodio, con il titolo di Breve film sull’amore – Non desiderare la donna d’altri, prima che la Mostra di Venezia nel settembre 1989 dedichi ai dieci capitoli uno spazio ad hoc, un vero e proprio evento, che precede la distribuzione italiana nelle sale, divisa in cinque parti.
Kieslowski è stato uno dei Maestri del cinema europeo, forse il primo capace di raccontare le aspirazioni, i sogni, i desideri di un continente, per la prima volta faticosamente riunito.
La morte improvvisa, che l’ha colto all’apice di una stagione densissima e felice, dopo l’uscita di Film Rosso, ci ha lasciato in eredità un pugno di capolavori, che il tempo ha reso sempre più lontani e la cui centralità si è fatta, purtroppo, sempre meno evidente. E’ necessario ripartire ora dall’opera somma, che gli ha regalato fama e successo internazionale, consentendo al suo cinema di varcare i confini angusti del suo Paese.
Decalogo 1 è uno degli episodi più amari e feroci, un film sulla fede e sui suoi inganni, sull’irrompere dell’elemento irrazionale, sull’imperscrutabilità del destino e sull’assenza di Dio.
Il protagonista è Krzysztof un fisico che cresce da solo il figlio Pawel. Educato in una famiglia cattolica, ben presto ha preferito abbandonare la spiritualità in favore di una visione laica della vita, segnata dalla sua passione per i computer e la matematica. Alla visione atea di Krzysztof si contrappone quella della zia, Irena, che crede ancora e asseconda i dubbi del piccolo Pawel.
Quando Pawel chiede al padre di lasciarlo pattinare su un laghetto ghiacciato vicino casa, i due calcolano con precisione se il ghiaccio potrà reggere il peso e in quale punto è più pericoloso.
Non basterà.
Proprio all’inizio, dopo le immagini della zia Irena, compare per la prima volta il cosiddetto testimone silenzioso, un uomo vestito di bianco, che attraversa quasi tutti gli episodi, in questo caso seduto sulla riva del laghetto, davanti ad un falò.
In questo primo episodio ci sono già tutte le coordinate del cinema di Kieslowski e Piesiewicz. Non è forse un caso che il protagonista si chiami proprio con i due autori: un padre, professore universitario, che ha eretto la razionalità logica, la scienza, l’informatica a suo nuovo simulacro.
La punizione sarà terribile, così come accade spesso con il Dio vendicativo della Bibbia.
Eppure, quando la tragedia si compie, rigorosamente fuori campo, Krzysztof non dubita mai: neppure quando vede la polizia e i vigili del fuoco dirigersi verso il laghetto, neppure quando scopre che il figlio non è andato a lezione di inglese.
I suoi calcoli, ripetuti due volte, erano esatti, nulla poteva ragionevolmente accadere a Pawel.
Solo che a cominciare dall’inspiegabile e simbolica rottura della boccetta d’inchiostro blu sulla sua scrivania, Krzysztof si trova a dover fare i conti tragicamente, con l’irrompere dell’irrazionalità, del caso, dell’occasione, capace di sconvolgere ogni ragionevole previsione.
Il destino si fa beffe di lui, della sua sicurezza, dei suoi computer, della sua matematica.
Il finale resta aperto ed enigmatico, come spesso accade negli altri episodi. Dopo aver compreso l’inutilità del suo nuovo Dio e la crudeltà insondabile di quello antico, Krzysztof si ritrova in una cappella, destinato ad aggrapparsi, forse, ad una spiritualità che aveva a lungo negato.
Decalogo 2, non nominare il nome di Dio invano, è un altro racconto morale, che ruota attorno ai rovelli di Dorota, musicista che suona nell’orchestra filarmonica, con un marito malato di cancro in ospedale, che lotta tra la vita e la morte e un amante, da cui aspetta un figlio, che sembrava non dover arrivare mai.
Dorota è letteralmente consumata dal dubbio, assilla il primario, suo vicino di casa, per sapere se il marito ce la farà: se questo accadrà, lei è decisa ad abortire il figlio che aspetta; se invece morirà, allora potrà cominciare una nuova vita.
Tuttavia tutto l’episodio ruota attorno alla figura del primario, un uomo anziano che vive da solo, con un canarino, un acquario di pesci rossi e tante piante grasse, con l’unico conforto della donna delle pulizie, che ascolta i suoi racconti del passato, quando ha perso tutta la sua famiglia sotto i bombardamenti.
E’ lui il deus ex machina della storia, è lui a dover dare una risposta impossibile a Dorota, che anela di conoscere il destino del marito, per compiere una scelta che cambierà la sua vita per sempre.
Non sapremo mai se il primario ha preferito raccontare una bugia, per salvare una vita o se era convinto della prognosi e si è trovato davanti all’imponderabile intervento della Grazia.
Il suo sguardo finale lascia supporre una scelta morale consapevole, frutto probabilmente della propria storia personale, del dolore e del rimpianto che sembrano tormentarlo ancora, dopo molti anni.
La simbologia dell’acqua, che già innervava il primo episodio, ritorna qui, in molti momenti, ma in particolare nella scena del risveglio del marito in una stanza in cui le gocce cadono dal soffitto e bagnano il letto e i muri della sua stanza, in quella del bicchiere che cade e in quella della vespa che riesce a uscire dal succo di frutta appoggiato al tavolino dell’ospedale, risalendo lungo il cucchiaino e a trarsi miracolosamente in salvo.
Tuttavia gli elementi simbolici, si fanno meno rarefatti, più evidenti, col rischio di appesantire un po’ il racconto.
Straordinarie le interpretazioni di Krystyna Janda (L’uomo di marmo, l’uomo di ferro) e del memorabile Aleksander Bardini, già avvocato in Senza fine, che tornerà anche nel quarto episodio.
La storia dell’episodio ritorna, come interrogativo etico, durante la lezione della professoressa Zofia, nell’ottavo episodio.
Decalogo 3, ricordati di santificare le feste, è ambientato durante la notte di Natale. Tutti partecipano alla messa. Poi, sulla porta del solito condominio di Varsavia, Krzysztof, il padre del primo episodio ne incrocia un altro, Janusz, vestito da Santa Klaus, che porta i regali alla sua famiglia. Un quadro familiare apparentemente solido, ordinario, ma ad un certo punto una donna suona al citofono e richiama l’attenzione di Janusz.
E’ Ewa. I due avevano condiviso tre anni prima una tormentata relazione extraconugale. Poi qualcuno aveva telefonato al marito della donna, mettendolo al corrente dei suoi tradimenti.
A Janusz, Ewa racconta che il marito è scomparso la mattina della vigilia, senza più dare sue notizie. I due si mettono in cerca dell’uomo, nel corso della lunga notte di Natale, tra guardie mediche, ospedali, false telefonate di avvistamenti, corse in automobile.
“E’ difficile restare soli in una notte come questa”.
Uno degli episodi più lineari, meno controversi: l’inganno è scoperto, tutti l’hanno compreso, eppure in questo caso emerge, al di là della semplicità narrativa, la generosa umanità di Kieslowski e Piesiewicz, che riversano su questi amanti del passato che si ritrovano per un ultima notte assieme, tutta la malinconia, il dolore, il fallimento di un sentimento che non tornerà più. Un fuoco che ormai ha lasciato solo cenere e che nulla riuscirà a far ardere di nuovo, neppure l’inganno e l’occasione.
Ne è consapevole anche la moglie di Janusz, il personaggio a cui gli autori concedono la straordinaria e rassegnata battuta finale, “Di nuovo uscirai tutte le sere?”, che strazia letteralmente il cuore.
Il terzo capitolo, così come il quarto, sono racconti sull’amore, sulle menzogne che continuiamo a dirci nel tentativo vano di alimentare una passione che si è persa o è semplicemente impossibile, proibita.
La fotografia notturna ed elettrica è del compianto Piotr Sobocinski (Film Rosso, Ransom, La stanza di Marvin).
Decalogo 4, onora il padre e la madre, stravolge radicalmente il precetto biblico, ribaltandone completamente l’assunto.
E’ il lunedì di Pasqua, la neve si è sciolta a Varsavia. Anka, giovanissima studentessa all’accademia di arte drammatica, sveglia il padre Michael con uno scherzo. Tra i due c’è una complicità assoluta.
La madre della ragazza è morta cinque giorni dopo averla data alla luce. Quando Michael è costretto ad un viaggio di lavoro, Anka trova tra le sue carte una busta con la scritta”da aprire dopo la mia morte”. Dentro vi trova un’altra busta chiusa, indirizzata a lei.
La curiosità è troppa: Anka saprà resistere? Quando il padre ritorna lei le mostra la lettera aperta, in cui la madre afferma che Michael non è il suo vero padre.
Messi di fronte ad una realtà nuova, tra i due protagonisti comincia quindi uno gioco crudele tra seduzione e gelosia, che sfiora l’incesto. Ciascuno è portato a riconsiderare i propri sentimenti per l’altro. La loro natura più vera, al di là di un legame di sangue che non sembra davvero esistere e di ruoli codificati che ciascuno ha interpretato per quasi vent’anni.
E’ il più teatrale tra gli episodi, non solo perchè Anka studia proprio recitazione, ma perchè si sentono gli echi del grande teatro americano ed europeo del Novecento: personaggi che si scontrano sino a scorticarsi, il non detto che esplode sulla scena in modo deflagrante, il peso dell’eredità e della tradizione, che viene spazzato via da una libertà nuova e da una ridefinizione identitaria.
Il finale tuttavia riporta ciascuno nel suo ruolo, ma chissà per quanto. La lettera che brucia lascia intatto il dubbio, che ormai si è fatto strada tra i personaggi, che pure sembrano voler passare oltre, dopo la parentesi di quel burrascoso weekend.
Ma il loro rapporto potrà tornare come prima? Difficile immaginarlo.
Decalogo 5 è uno degli episodi capitali del Decalogo, uno straordinario film sulla morte e sulla violenza, quella privata e quella di Stato.
Jacek e’ un giovane vagabondo, si aggira senza meta per le strade della città. Sale su un taxi, condotto da un uomo altrettanto odioso. Improvvisamente lo uccide, prima cercando di soffocarlo con una corda, quindi finendolo con una grossa pietra, prima di gettarlo nel fiume.
Lo difende in aula l’avvocato Piotr, un giovane penalista, contrario alla pena di morte. Nonostante i suoi sforzi, Jacek sarà condannato.
Le immagini del rituale organizzato in prigione, la crudeltà senza scrupoli di militari e burocrati lascia ancora oggi senza fiato.
Lo stile, rigoroso ed essenziale di Kieslowski, si permette anche qualche notevole deviazione, come in questo quinto episodio, che ha dominanti gialle, stranianti, in tutta la prima parte, grazie alla fotografia espressionista di Sławomir Idziak (L’anno del sole quieto, La doppia vita di Veronica, Film Blu, Gattaca, Black Hawk Down, Harry Potter e L’Ordine della Fenice).
E questa volta il rituale della violenza è mostrato in tutta la sua implacabile disumanità. Non sembra esserci differenza, sembra dirci Kieslowski, tra la violenza insensata e criminale e quella amministrata in nome del popolo. Il racconto si muove senza deviazioni e senza sorprese, come stritolato da una morsa che non ammette vie d’uscita, non ammette pentimento o misericordia, Un meccanismo in cui la colpa e la pena sono meccanismi ancestrali, immutabili nella loro brutale disumanità.
La riflessione è sempre sull’uomo, sui suoi desideri e le sue paure: la forza della messa in scena e’ tutta a beneficio della chiarezza espressiva, del nucleo morale, che sta al cuore di ogni episodio.
Decalogo 6, che uscì nelle sale anch’esso in versione lunga, è il più leggero tra i dieci film ispirati ai comandamenti forse anche per il valore meno rilevante del precetto che impone di non commettere atti impuri.
Kieslowski racconta di un impossibile amore a distanza. Quello del giovanissimo postino Tomek per la più matura Magda.
Il protagonista spia la bellissima vicina di casa con un cannocchiale, le invia falsi avvisi di notifica, per poterla vedere alla posta e poi decide di dichiararsi… ma l’innocenza e la purezza dei sentimenti di Tomek si scontrano con il cinismo e la disillusione di Magda, con esiti imprevedibili.
La riflessione sull’amore e i sentimenti, tra il giovane e innocente Tomek e la cinica e disillusa Magda, sembrerebbe la più chiara e prevedibile tra le parabole cinematografiche di questo Decalogo, ma diventa l’occasione per Kieslowski di ribaltare le attese anche questa volta, spingendo i due personaggi a mettere in discussione le proprie motivazioni, anche in modo molto profondo.
Come sempre non c’è nulla di semplice ed evidente, persino in questo racconto apparentemente lineare, le cose si fanno più articolate. La morte, il suo spettro che si allunga, finisce per sconvolgere le certezze dei suoi protagonisti, spingendoli ad indagare davvero l’onestà e il valore dei propri sentimenti.
Il finale resta aperto, come spesso accade nel Decalogo, perchè Kieslowski e Piesiewicz non hanno mai la pretesa di voler dire una parola definitiva, quanto piuttosto di instillare il dubbio, facendo uscire personaggi e spettatori dal loro pregiudizio.
Il ribaltamento di prospettive nell’ultima parte diventa per entrambi un motivo di cambiamento e di maggiore consapevolezza di sè.
Decalogo 7 è forse uno dei pochi episodi minori e racconta la storia di una maternità rubata e negata.
A sedici anni Majka era rimasta incinta di Wojtek, uno dei suoi professori. La madre Ewa, preside dell’istituto, aveva scelto di mettere a tacere la storia, dichiarando che la piccola Anja era sua e crescendola come una figlia, grazie alla compiacenza del sistema.
Sono passati sei anni e Majka decide di ricominciare in Canada, una nuova vita: chiede il visto, preleva Anja alla recita della scuola e la porta con sè da Wojtek, cercando di spiegarle l’inganno in cui ha vissuto sinora.
Ma la bambina, che si soffre di attacchi notturni, è troppo piccola per comprendere davvero le cose.
E così la fuga di Majka, finisce sulla banchina di una stazione, dove si accorge di essere davvero sola, senza più affetti e senza la possibilità di realizzare quel piano impossibile.
Anche in questo caso Kieslowski ribalta le attese e sdoppia il significato del comandamento, spesso associato ad un’interpretazione materalistica, qui invece giocato su una prospettiva molto diversa.
Oggetto del primo furto è infatti la maternità di Majka, a cui la piccola Anja viene sottratta, per gratificare il desiderio di Ewa e per evitare a tutti il prezzo di uno scandalo.
Il secondo furto assume invece più chiaramente i contorni di un rapimento, con il quale Majka si vuole riappropriare del proprio ruolo, della verità di una vita vissuta nella menzogna e e nella vergogna.
Tuttavia attorno a sè nessuno sembra più desiderarlo. Non Wojtek, che non insegna più e costruisce animali di peluche e non ha nessuna intenzione di fare il padre; non Anja che si rifiuta categoricamente di chiamare madre quella che ha sempre creduto sua sorella maggiore, non i genitori di Majka, divisi tra l’ignavia di un padre silenzioso e succube e la protervia di una madre, che cerca di aggiustare ogni cosa, ma che sembra mossa solo da un irrisolvibile e malato egoismo.
Dopo un episodio girato quasi interamente in esterni, con il Decalogo 8, non dire falsa testimonianza, ritorniamo al condominio dove vivono quasi tutti i protagonisti dei dieci episodi.
Vi troviamo Zofia, un’anziana professoressa universitaria di filosofia, che riceve la visita di una giovane collega americana, Elżbieta, conosciuta in un precedente viaggio a New York.
Elżbieta si ferma ad ascoltare la sua lezione, “l’inferno della morale” e prende la parola per raccontare una storia del passato che sembra legarsi agli interrogativi etici, al centro delle riflessioni degli alunni.
Nel febbraio del 1943 una bambina ebrea, che si nascondeva dalle persecuzioni, doveva essere ospitata a casa di una coppia di giovani, offertisi di fare da padrini per il battesimo, che la aiutasse a sviare le attenzioni dei tedeschi occupanti.
Solo che, una volta raggiunto l’appartamento dove vivevano i due giovani resistenti, questi si erano tirati indietro con la motivazione di non poter mentire di fronte a Dio.
Mentre Elżbieta racconta la storia agli studenti, è evidente che anche Zofia ricorda quella storia e ne è turbata.
Nel corso della lunga giornata passata assieme, le due donne scopriranno il ruolo avuto da ciascuna in quella storia del passato, cercando di ricostruire una verità, che allora era stata nascosta dietro un rovello etico e che aveva un risvolto assai più prosaico e immediato.
Solo che quando i pezzi del puzzle vanno a posto non senza una lunga sequenza da brividi all’interno di quel caseggiato dove le due si erano incrociate la prima volta nel 1943, il peso del passato sembra schiacciare ogni tentativo di razionalizzazione.
E qualcuno ancora categoricamente si rifiuta di parlare di quegli anni, avendo preferito rimuovere del tutto il senso della propria storia.
Kieslowski cerca ambiziosamente di fare i conti con il senso di colpa dei polacchi per gli orrori della Seconda Guerra Mondiale, tuttavia l’episodio rimane monco ed ellittico, per un verso, e sin troppo parlato, per l’altro.
Forse il rifiuto finale del sarto e il suo sguardo verso le donne nell’ultima inquadratura nascondono altre verità, ma poi arrivano i titoli di coda a lasciare la sensazione di un’incompiuta.
Decalogo 9 è un altro episodio sull’amore e si riallaccia idealmente al sesto, proseguendo quella riflessione ed estremizzandola, nel segno del precetto: non desiderare la donna d’altri.
Un chirurgo, Roman, ancora piuttosto giovane, sposato da dieci anni con Hanka, scopre improvvisamente di essere diventato completamente impotente.
La notizia lo sconvolge e lo spinge a ripensare al proprio rapporto con la moglie, ai figli che non hanno voluto, ad una possibile separazione che liberi Hanka, da una relazione, ora incompiuta.
Roman comincia a diventare paranoico, spia Hanka, scopre che ha un giovane amante, Mariusz, uno studente di fisica.
La moglie ha deciso di troncare quella relazione, proprio quando il marito li coglie assieme.
Anche in questa occasione, Kieslowski e Piesiewicz sembrano essere meno ispirati dalle questioni sentimentali e relazionali: il nono capitolo si muove con i ritmi di una commedia virata al nero, eppure non riesce mai a trovare il tono giusto, tra angoscia, pensieri suidici, gelosia improvvisa.
Non solo, ma nella dualità consueta del Decalogo, questa volta il ruolo della moglie rimane molto sullo sfondo. Quello che conta è l’osservazione di come la privazione della dimensione sessuale, finisca per stravolgere completamente la personalità del protagonista, il suo equilibrio psicologico e non solo sentimentale.
Illuminato ancora da Piotr Sobocinski, il film sfrutta gli interni angusti, i campi stretti e il recadrage di porte e finestre, per raccontare l’ossessione in cui precipita Roman.
Decalogo 10 è la chiusura perfetta, giocata sui toni di un’ironia grottesca, paradossale.
Un episodio che sembra richiamare l’amarezza e lo sberleffo della nostra migliore commedia, non solo nelle dinamiche tra i personaggi, ma anche nel ritmo e nella scansione narrativa.
Non desiderare la roba d’altri si riallaccia all’ottavo episodio, che già mostrava, tra gli inquilini del grande complesso residenziale, un anziano, grande appassionato di francobolli rari.
Alla sua morte, i figli Artur e Jerzy, che non si vedono da anni, uno posato e padre di famiglia, l’altro rocker ribelle, troveranno a casa del genitore la sterminata e preziosissima collezione.
Il padre aveva vissuto una vita modesta, ma era riuscito a mettere da parte un patrimonio inestimabile, di cui i figli però non capiscono subito l’importanza, affidandosi a sedicenti esperti, che fiutano un possibile affare.
I due eredi finiscono pian piano per essere travolti dalla stessa passione, quando si accorgono che uno dei pezzi pregiati della collezione manca. Ma quello dei collezionisti è un mondo avido e pericoloso, come scopriranno a loro spese. Un mondo in cui le proposte più impensabili diventano reali e in cui bisogna imparare a diffidare di tutti.
Tuttavia la loro nuova avventura finirà per rinsaldare un rapporto fraterno, che sembrava compromesso.
L’episodio si chiude con la consapevolezza di aver perso tutto, ma di aver invece recuperato uno spazio inatteso di affetti e di passioni.
E’ l’umanità riconquistata ad imporsi sulla brama di possesso.
Straordinari i due protagonisti, Zbigniew Zamachowski e Jerzy Stuhr, che torneranno ad interpretare due fratelli anche in Film Bianco, che condivide lo stesso tono feroce e dissacrante di questo decimo capitolo.
Kieslowski e Piesiewicz ribaltano intelligentemente la chiarezza stentorea del precetto biblico, trasportandolo nella realtà dell’esistenza e mettendo in crisi ogni certezza precostituita.
Il dubbio lacerante diventa, laicamente, il vero filo rosso che lega i dieci capitoli, capaci di raccontare tutta la fatica degli uomini e delle donne, di fronte all’imprevedibilità della vita, alle beffe del destino.
Se i comandamenti consacrano il dogma imposto da Dio all’uomo, quel precetto si stempera e diventa assai meno definito, nel momento in cui gli uomini si trovano a doverlo condividere tra di loro, nella convivenza e nella fatica delle scelte quotidiane.
Kieslowski sfida ogni volta il suo spettatore, lo mette in una posizione scomoda, lo spinge a ripensare alle proprie certezze.
Un grande lezione per tutti quelli, come noi, che amano il cinema capace di interrogare e mettere in dubbio, spingere a riflettere e non a subire.
Recuperatelo, condividetelo, riscopritelo: anche perchè Kieslowski ha lasciato pochissimi eredi – forse solo il russo Zvyagintsev e l’iraniano Farhadi – ed il suo cinema è ancor più necessario oggi, di quanto non fosse vent’anni fa.
Come ha dichiarato Piesiewicz a El Pais pochi mesi fa “la cosa più importante era trattare gli esseri umani con comprensione, offrendo a tutti i personaggi la loro opportunità. La forza del nostro cinema si basava sul fatto che non giudicavamo nessuno, ponevamo delle domande, senza la presunzione di dare tutte le risposte”.
Imperdibile.