La donna dello scrittore ***1/2
«In quel periodo tutti avevano un solo desiderio: imbarcarsi.
Tutti avevano un solo timore: quello di dover restare.
Partire, partire da questo paese in rovina, da questa vita distrutta, da questo pianeta!
La gente vi ascolta avidamente se parlate di imbarchi, di navi catturate che non arriveranno mai in porto, di visti comprati e di visti falsificati e di nuovi paesi di transito»
Anna Seghers, Transito, 1944
L’ottavo film di Christian Petzold, presentato ancora una volta alla Berlinale, lo conferma come la voce più limpida e autorevole del cinema tedesco di questo nuovo secolo.
Adattando il romanzo Transito di Anna Seghers, ambientato nella Francia collaborazionista, occupata dai nazisti, pubblicato nel 1944 in inglese, Petzold decide di operare un significativo slittamento temporale, lasciando che l’Europa divisa e lacerata dalla guerra degli anni Quaranta si fonda senza soluzione di continuità con quella odierna.
La Seghers era una scrittrice ebrea e tedesca, in fuga dal suo paese. Il suo romanzo aveva tutta l’urgenza narrativa di chi era costretto a vivere pericolosamente la propria vita e la propria arte.
Il film di Petzold ne restituisce la tensione febbrile, il movimento languido, il passo incerto e doloroso.
Al centro di Transito e de La donna dello scrittore c’è un operaio, Georg, un sans papiers coinvolto nel mercato nero che, dopo aver tentato inutilmente di consegnare documenti e passaporti ad uno scrittore in esilio a Parigi, ne ruba l’identità e l’ultimo romanzo inedito, dopo averne scoperto il suicidio, e fugge a Marsiglia, dove spera di imbarcarsi sulla Montreal, una nave che dovrebbe condurlo sino in Messico.
Marsiglia è tuttavia una città ancor più pericolosa di Parigi, in cui tutti si nascondono, in cui delatori e spie sono dovunque, in cui nessuno può davvero dormire tranquillo.
Qui si imbatte nella moglie dello scrittore, Marie che, ancora innamorata, segue le tracce lasciate da Georg, senza mai capire che quello che sta inseguendo è un fantasma.
Marie vive con un medico, Richard, anche lui pronto a partire per il Sudamerica.
Fra i tre personaggi si crea un triangolo impossibile, che sembra riecheggiare quello di Casablanca: ma su tutti incombe l’ombra dello scrittore, che sembra indirizzare ancora il destino di tutti, in un grande romanzo postumo, che forse qualcuno un giorno scriverà.
Petzold racconta una Marsiglia da film noir, con le sirene della polizia, le retate nel cuore della notte, gli immigrati ammassati in appartamenti clandestini, mostrandone il volto odierno e non quello degli anni ’40, ma raccontando la città fenicia per quello che è sempre stata: un grande porto verso il mediterraneo, partenza o approdo per viaggi ancor più lontani, crocevia di uomini e di storie, la ville bleu, che il sole accecante taglia in ombre e chiaroscuri sempre definiti.
La donna dello scrittore titolo italiano insapore, che sostituisce il ben più significativo originale Transit, continua il percorso di Petzold nella psicologia profonda e nelle radici storiche e identitarie del suo paese. Un viaggio che procede à rebours da l’intervento in Afghanistan di Jerichow, fino a risalire alla Guerra Fredda di La scelta di Barbara, al secondo dopoguerra di Phoenix – Il segreto del suo volto e ora si conclude provvisoriamente in questi anni ’40, che assomigliano proprio all’Europa di oggi.
Per i registi tedeschi, che hanno cominciato a lavorare dopo il crollo del Muro, il passato non è più un tabù, ma è davvero un luogo da ritrovare, ripensare, alla ricerca di sè.
Il cortocircuito temporale è certamente voluto, ha una forza simbolica spiazzante – superfluo spiegare perchè – e ci costringe a metterci, per una volta, nei panni di chi vive sul filo della legalità, nascosto e braccato, in quel costante stato di terrore, che alimenta uno spirito di sopravvivenza capace di creare legami impensabili, ma anche tradimenti brucianti.
La fragilità sentimentale si riverbera nei rapporti tra i personaggi, che vivono un melò assoluto, che non mette in gioco solo gli affetti, ma la vita stessa.
La donna dello scrittore è attraversato da un tremore che non trova pace, da una tensione che sembra muoversi sotterranea, pronta sempre ad esplodere. Le vite sospese dei tre protagonisti si fanno motore di sentimenti impossibili, che non si possono realizzare nella precarietà del presente, se non per fuggevoli incontri.
Franz Rogowski ha la tenerezza e la determinazione un po’ingenua e allucinata di Georg, Paula Beer si ritaglia un altro ruolo fatale, nella parte della moglie dello scrittore. Straordinari anche gli altri caratteristi, che attraversano il film, lasciandone una traccia indelebile: il bambino che gioca a pallone con la madre sordomuta, il direttore d’orchestra, la donna con i cani, il medico. Ciascuno portatore di una storia, di un destino, di una scelta, in un film in cui ogni immagine vale, ogni parola racconta.
E se il cinema di Petzold diventa sempre più forte e necessario, questa volta è anche un atto di fiducia nella capacità di certi racconti di continuare ad essere centrali, passando attraverso il tempo e lo spazio, proprio come scriveva Christa Wolf a proposito di Transito: “è uno di quei libri che s’innestano dentro la mia vita e che la mia vita non finisce mai di scrivere”.
Ora anche attraverso le immagini di Christian Petzold.
Imperdibile.