Millennium – Quello che non uccide **
Avevamo lasciato Lisbeth Salander allontanarsi da sola, sulla sua moto, alla fine di Uomini che odiano le donne. La ritroviamo bambina, all’inizio di Quello che non uccide, in fuga da un padre violento e abusivo e da una sorella incapace di sottrarsi alla spirale dell’orrore.
Sono passati quasi sette anni dall’adattamento americano del bestseller di Stieg Larsson e il suo personaggio più noto torna al cinema completamente rinnovato. Abbandonata l’idea di portare sul grande schermo gli altri due mediocri episodi della trilogia originale, Scott Rudin e la Sony hanno scelto di rinnovare integralmente il cast, per affidare all’uruguaiano Fede Alvarez, noto soprattutto per i suoi horror La casa e Man in the Dark, il compito di mettere mano al quarto romanzo della serie di Lisbeth Salander, scritto da David Lagercrantz.
Lo straordinario cast originale, guidato da Rooney Mara, Daniel Craig e Robin Wright, è stato sostituito da Claire Foy e da attori per lo più scandinavi, ma i cambiamenti non solo solamente nei volti e nella regia.
Quello che non uccide è un film radicalmente diverso da Uomini che uccidono le donne e non solo perchè qui la hacker Lisbeth Salander acquista un ruolo centralissimo e decisivo, a discapito del giornalista investigativo Mikael Blomqvist, ma perchè la detection classica da noir scandinavo trascolora in un action moderno, dove l’intreccio è poco più che un pretesto, per muovere l’azione e i personaggi, secondo uno spartito, che assomiglia molto di più ad film di James Bond, che ad un giallo a chiave.
Lisbeth è sparita nel nulla, sono passati tre anni da suo coinvolgimento nella scoperta degli orrori della famiglia Vanger. E’ diventata una sorta di vigilante senza maschera, che cerca di porre rimedio ai soprusi degli uomini che usano in proprio potere in maniera violenta e abusiva.
Quando viene incaricata di recuperare un software americano che potrebbe consentire di controllare l’arsenale missilistico mondiale, dall’ingegnere che l’ha progettato e che si è pentito di averlo affidato alla NSA, si trova invischiata in un intrigo internazionale pericolosissimo, che vede coinvolte le agenzie di sicurezza americane e svedesi e un misterioso gruppo d’azione chiamato Spiders, dietro cui si nasconde il passato di Lisbeth.
A darle una mano, naturalmente il fidato hacker Plague e Mikael Blomqvist, che se la passa maluccio. La sua rivista Millennium è stata acquistata da una star dei social media e lui non ha scritto nulla di significativo dopo la storia con Lisbeth Salander.
Il film diretto da Fede Alvarez riesce nell’impresa di neutralizzare tutti gli elementi controversi e provocatori del personaggio della hacker svedese, riscrivendone persino il passato, al solo fine di trovare un incipit che combaci emotivamente con il redde rationem finale.
Tanto originale, complesso e scomodo era il personaggio creato dal compianto Stieg Larsson e poi portato sullo schermo da Noomi Rapace e Rooney Mara, tanto piatto e bidimensionale quello che ritroviamo qui, con il volto di Claire Foy.
Quel misto di aggressività repressa e silenziosa e di fragilità femminile, costantemente vilipesa e tradita, facevano di Lisbeth Salander uno dei personaggi più sensazionali del nuovo secolo, un ruolo esplosivo, profondamente morale, un’eroina vendicatrice, ma anche una ragazza bloccata nella propria adolescenza.
L’immagine di Rooney Mara, che aveva alle spalle quell’unico breve ruolo in The Social Network, ne usciva completamente stravolta, grazie ad una generosità espressiva assoluta, che Fincher plasmava in un racconto di miracoloso equilibrio e professionalità, ma profondamente umano, capace di mostrare davvero quel mondo di uomini che odiano le donne, nella famiglia e nelle istituzioni.
Alvarez, aiutato da Jay Basu e Steven Knight come sceneggiatori, sceglie una strada radicalmente diversa, smussando i troppi spigoli caratteriali e facendo della sua protagonista il centro assoluto del film, ma un centro fondamentalmente vuoto, riempito da un cliché interpretativo, più che da un personaggio vero.
Ma non è solo il personaggio di Lisbeth ad essere stato oggetto di una normalizzazione semplificante, bensì tutto il film segue lo stesso percorso, sin dai titoli di testa, che scimmiottano quelli memorabili e cyberpunk del film di Fincher, nel tentativo inutile di replicarne manieristicamente il significato.
La detection è ridotta ad un macguffin, piuttosto esile e inverosimile, il villain si intuisce dopo il prologo e tutta la storia serve solo ad imbastire dei grandi set d’azione, che Alvarez dirige con mano sicura e con notevole senso del ritmo e dello spazio, che lo faranno certamente finire sulla shortlist del prossimo film di 007.
In fondo, Quello che non uccide, accantonata ogni velleità autoriale, è proprio un film d’azione come ce lo immaginiamo nel XXI secolo, che mescola elementi presi a prestito dai rovelli piscologici del Bond di Mendes, con l’azione rutilante del Bourne di Greengrass. Il percorso narrativo è sempre lo stesso: presentazione dei personaggi, scoppio iniziale, fuga, il passato che ritorna, nuove alleanze portano alla creazione di un gruppo, quindi scontro finale. Le coordinate mainstream ci sono tutte. E c’è persino una Lamborghini nera, che Lisbeth ruba e usa per metà del film, in uno dei suoi momenti più inverosimili. Ma tant’è.
La serie probabilmente proseguirà: Lagercrantz ha scritto un quinto romanzo L’uomo che inseguiva la sua ombra, nel quale però il protagonista torna ad essere Blomqvist e Lisbeth è confinata in carcere. Vista la scelta dell’anonimo e insipido Gudnason, per il ruolo del giornalista di Millennium, confidiamo nella fantasia degli sceneggiatori.
In ogni caso mai titolo fu più indovinato: Quello che non uccide… ti rende più forte. Se questo film non ucciderà la serie di Lisbeth Salander, allora la Sony si ritroverà un franchise nuovo da sfruttare a suo piacimento, con una action heroine, da muovere a piacimento nel disastrato scenario europeo.
Chissà cosa ne avrebbe pensato Stieg Larssson.