Neurochirurgo di grandissime abilità, pieno di sè, sempre alla ricerca di una sfida, incapace di affetti, Stephen Strange vede la sua vita rimessa in discussione, in seguito ad un gravissimo incidente d’auto che distrugge le sue mani, rendendogli impossibile il lavoro.
Una collega del pronto soccorso, che è stata la sua amante, cerca di aiutarlo nella lunga convalescenza, ma nessuno potrà ridare a Strange il controllo delle sue abilità.
Proprio quando la depressione sembra averla vinta, il fascicolo di un paziente miracolosamente guarito da una paralisi, lo spinge a ricercarne i segreti in Nepal, a Katmandu, in un tempio invisibile al mondo, governato dall’Antico, un Maestro dell’Occulto che sembra avere poteri sovrannaturali.
Tutte le sue certezze di uomo di scienza verranno messe a dura prova nel corso di un addestramento, che affonda le sue radici nella solita mistica orientale.
Nel frattempo però uno dei discepoli dell’Antico, Kaecilius, ha rubato un rituale che consentirà alla Dimensione Oscura di aprire un varco nel nostro mondo e al temibile Dormammu di conquistarlo…
Gli entusiasmi miopi, mostrati dai soliti critici americani, sempre più proni al potere (forse ipnotico?) della Marvel, sono davvero mal riposti.
Come d’abitudine, il film si muove nel solco del già visto, con una storia di origini estremamente tradizionale, che forse nel microcosmo Marvel non si vedeva dal primo Iron Man, ma che certamente non aggiunge davvero nulla all’universo dei cinecomics.
Tutto appare telefonato, fiacco, di una banalità sconcertante.
Di più: Doctor Strange racconta la solita favoletta della scienza tradizionale limitata, mentre la vera guarigione è da ricercare nei libri sacri, nelle religioni alternative, nella meditazione, nel controllo della mente…
Il tono è a cavallo tra avventura, racconto di formazione e trionfo di effetti escheriani, con spruzzi di commedia romantica.
E così per un Tony Stark che si palesa ormai solo negli episodi collettivi degli Avengers, c’è un altro eccentrico egoriferito, che prende il suo posto nel cuore di New York e dell’universo Marvel.
Tutto studiato alla perfezione.
Ma il cocktail è sempre immancabilmente lo stesso. Il famoso ‘tono’ leggero, la cui assenza è stata severamente rimproverata ai film della DC e che ha molto preoccupato la Lucasfilm per il prossimo Rogue One, qui invece è immancabilmente quello ‘giusto’: ovverosia superficiale, vuoto, privo di qualsiasi aggancio con la realtà, attento solo alla coerenza interna del grande progetto di Kevin Feige, una delle anime nere del cinema del nuovo secolo: il mogul della Marvel è tanto preoccupato della linearità delle forme e dei racconti, quanto di svuotare quell’universo di ogni elemento originale, problematico, adulto.
Il mondo-Marvel è, al più, una lunga serie da network mainstream, sempre uguale a se stessa, senza mai un sussulto.
Certo questo Doctor Strange non è il peggiore degli episodi, tutt’altro. Cerca almeno un soprassalto estetico, grazie alla natura magica e occulta dei poteri del suo protagonista, capace di far riavvolgere il tempo e modificare lo spazio. Il resto lo fa il talento mimetico di Cumberbatch e degli altri interpreti europei, tutti sotto-utilizzati.
Particolarmente intelligente l’uso del 3D, mai come questa volta prezioso alleato del racconto, soprattutto nella prima parte, che limita moltissimo i primi piani alla ricerca della profondità di campo e della valorizzazione dei set, dall’ospedale alla casa di Strange, dagli interni in nepal agli esterni newyorkesi.
Doctor Strange sfrutta in modo intensivo l’immaginario creato da Nolan per Inception, con le città che si accartocciano su se stesse e le stanze e gli interni che si modificano in assenza di gravità, rendendo i duelli corpo a corpo una sfida alle leggi della fisica.
Scott Derrickson, di suo un mediocre regista di horror, non fa altro che saturare le due ore del film con palazzi che ricadono e che si aprono in due, corridoi e ambienti che ruotano, si allungano, cambiano forma sulla scorta dei poteri magici dei suoi protagonisti.
Sembra uno squarcio di libertà formale all’interno dell’universo standardizzato della Marvel, ma è anche questo un rischio calcolatissimo, che non fa altro che richiamare l’immaginario estetico di uno dei film più noti dell’ultimo decennio.
Altro che Escher e Piranesi…
A venire in aiuto di Strange, impegnato – come tutti del resto – a salvare il mondo dalla minaccia dell’informe Dormammu, ci sono anche un mantello animato – la cappa di levitazione – e un medaglione magico – l’occhio di Agamotto.
Dopo un’ora di film, le avventure del neurochirurgo trasformato in stregone cominciano a venire a noia, tanto inconsistente è il villain prescelto, tanto mediocre è l’Antico, tanto insignificante è Mordo, il sodale di Strange, che ha un sussulto, solo nella solita scena che segue i lunghissimi titoli di coda…
Si salva Rachel McAdams, nei panni della dottoressa Catherine Palmer, l’unica che riesca a riportare il racconto con i piedi per terra, la cui presenza tuttavia si dirada, mano a mano che il film procede.
Continuiamo a scrivere di cinecomics, perchè è diventato, nel corso degli ultimi quindici anni, il genere unico delle grandi narrazioni hollywoodiane, quello che drena le risorse maggiori, che coinvolge ormai anche gli attori più talentuosi, che satura i weekend più importanti dell’anno.
Tuttavia, nonostante il profluvio di episodi e di registi che si sono avvicendati, i punti di riferimento continuano a rimanere i soliti: Unbreakable (2000) di Shayamalan, Spider Man 2 (2004) di Raimi e Il Cavaliere Oscuro (2008) di Nolan.
Tutto il resto è trascurabile…