Argo

Argo ***1/2

Il terzo film di Ben Affleck è la sua consacrazione definitiva. Attore mediocre e di scarsa espressività, aveva stupito un po’ tutti con un debutto registico di rara efficacia, Gone baby gone, da un romanzo a tinte fosche di Lehane, adattato con una precisione ammirevole nella scelta dei luoghi e dei caratteri.

The town, presentato in concorso a Venezia, confermava la sua capacità di ritrarre un milieu ben conosciuto, quello del South Boston, ripercorrendo il cinema di genere con mano solida e senza cedimenti.

Affleck è un regista capace di valorizzare i suoi attori e le sue storie, con un occhio di riguardo al cinema civile degli anni ’70, onnipresente ispirazione per tutti coloro che vogliano continuare a fare film intelligenti all’interno delle major.

Non è un caso che Argo inizi con il logo che la Warner Bros. usava negli anni ’70, disegnato da Saul Bass, lo stesso che apriva Mean Streets, L’esorcista, Tutti gli uomini del presidente o Barry Lyndon.

Il film comincia con degli storyboard che riassumono velocemente la storia iraniana del dopoguerra: il petrolio ed il regno dello scià, quindi il breve governo democratico di Mossadegh, interrotto dal ritorno di Reza Pahlavi nel 1953, sotto l’egida degli Stati Uniti, con la sua polizia politica torturatrice e le sue enormi e sfacciate ricchezze, l’occidentalizzazione del paese, il colpo di stato di Khomeini ed il ritorno dello stato teocratico.

Argo è tratto da una storia vera.

Il 4 novembre 1979, gli studenti khomeinisti assaltano l’ambasciata americana e prendono in ostaggio 52 diplomatici. Comincia così una delle crisi più drammatiche della storia americana: per 444 giorni i rivoluzionari guidati da Khomeini si faranno beffe della diplomazia americana, mettendo in scena un terribile spettacolo fatto di bandiere bruciate, proclami televisivi, comunicati della rivoluzione.

Il giorno dell’assalto però sei americani riuscirono a scappare, trovando rifugio nell’abitazione dell’ambasciatore canadese. Per oltre due mesi il governo ed i servizi americani li lasciarono da soli, poi decisero di recuperarli, affidando alla CIA l’operazione, anche per allentare la tensione sull’opinione pubblica statunitense, provata dallo stillicidio di notizie sugli ostaggi dell’ambasciata.

In un anno elettorale, Carter non poteva mostrarsi troppo debole e remissivo nei confronti del medioriente e di chi sembrava tenere in pugno una grande democrazia.

L’incarico di riportare a casa i sei fuggitivi è affidato all’agente Tony Mendez, un esperto di estrazioni e di contraffazioni, che deve cercare il modo di fornire al gruppo delle nuove plausibili identità, in modo da superare i controlli del regime.

L’amicizia con John Chambers, artista del make-up cinematografico e premio Oscar per Il pianeta delle scimmie, gli fornisce l’illuminazione: perchè non mettere in piedi una finta produzione, incaricata di girare un film di fantascienza esotica alla Guerre Stellari, proprio in Iran?

I sei americani avrebbero potuto essere scambiati per membri di una troupe canadese, incaricata di fare sopralluoghi per le imminenti riprese.

La copertura però dovrà reggere ai controlli della polizia e del ministero della cultura iraniani: Mendez si mette in viaggio per Los Angeles e coinvolge non solo Chambers, ma anche un suo amico produttore, Lester Siegel. I due inventano in pochissimi giorni una fantomatica casa di produzione, la Studio Six, scelgono un copione adatto, Argo appunto, ed annunciano l’inizio delle riprese a marzo del 1980.  Una bella festa hollywoodiana, con lettura del copione in costume, da parte di un gruppo di attori, a beneficio della riviste di settore, completerà l’inganno.

Mendez è pronto per raggiungere Teheran e per tornare indietro con la sua troupe improvvisata. Ma non tutto va alla perfezione… i sei sono riluttanti e non si fidano, il ministero della cultura rivoluzionario vuole conoscere regista e produttore ed i khomeinisti si sono accorti che tra gli ostaggi dell’ambasciata mancano degli americani.

Il tempo corre veloce, le insidie sono dietro l’angolo e Mendez dovrà mettere in gioco tutte le sue abilità, per portare a termine una missione così delicata.

Argo gioca perfettamente su tre piani paralleli: ci sono i sei fuggitivi che non possono uscire dalla casa dell’ambasciatore canadese, la CIA a Langley che lavora per tirarli fuori, studiando un piano adatto e (in)credibile, quindi gli studi di Hollywood, dove la messa in scena trova la forza di diventare vera.

Affleck usa magnificamente il montaggio alternato, per creare una suspense credibile e per far dimenticare miracolosamente ai suoi spettatori un finale già scritto: è la magia del cinema, capace di illudere, creare attese, giocare con i meccanismi identificativi.

Ed è la stessa magia che Mendez usa per rendere credibile la sua storia: persino in un paese in rivolta ed allo zenit del suo antiamericanismo, la lusinga di una produzione hollywoodiana, l’orgoglio di fare da set ad un grande film di fantascienza finisce per consentire ai sei diplomatici una fuga impossibile.

Il cinema riesce a rendere verosimile ogni storia ed a falsificare persino la realtà, in un continuo e fecondo cortocircuito.

Affleck indubbiamente sarà stato affascinato da questo paradosso, che innerva la storia, scritta dal quasi esordiente Chris Terrio, a partire da un articolo di Wired e dalla biografia dell’agente Mendez.

Il regista non si è lasciato sfuggire l’opportunità di raccontare un pezzo della vecchia Hollywood, con arguzia e humor autoironico: “perfino una scimmia impara a fare il regista in un giorno“.

Chambers e Siegel si muovono con astuzia nei meccanismi della Los Angeles degli studios e dell’effimero, creando le condizioni perchè la copertura regga, con falsi poster, pubblicità, rumors e un piccolo studio, affittato per pochi giorni.

A Hollywood, fare finta di essere qualcuno, senza essere nessuno è naturalissimo, come spiega Chambers a Mendez.

Ed è proprio nella parte della mecca del cinema che Affleck trova il necessario controcanto leggero, ad un thriller che tiene costantemente alta la tensione narrativa.

Ma più che allo statuto ontologico di realtà del mezzo cinematografico, Affleck sembra interessato a raccontare per una volta una storia politica nella quale è l’intelligence a trionfare, senza l’uso della forza.

Argo racconta le premesse storiche della rivoluzione khomeinista con semplicità, ma con grande onestà intellettuale, senza reticenze sul coinvolgimento americano nel sostenere un regime ignobile e dissennato e chiarendo come l’invasione dell’ambasciata sia stata una sorta di rappresaglia, all’esilio proditoriamente concesso allo scià sul suolo americano.

Affleck mostra la crudeltà dei khomeinisti e la teatralità delle loro azioni, mantenendo un equilibrio invidiabile nel rappresentare le forze in campo e le loro motivazioni.

Il successo della missione “canadian caper“, che consentì di riportare a casa i sei diplomatici quasi un anno prima degli altri, fu ovviamente attribuito al Canada, per evitare rappresaglie sugli altri ostaggi detenuti nell’ambasciata, e solo nel 1997, Bill Clinton de-secretò gli atti, consentendo a Mendez ed agli altri agenti coinvolti di poter raccontare i fatti.

Ma questo successo fu un successo dell’astuzia sulla forza, un successo che Carter non potè rivendicare e che il protrarsi della crisi degli ostaggi rese inutile per la sua rielezione, spalancando le porte della Casa Bianca a Ronald Reagan e ad un altro modo di intendere la politica estera americana e di trattare le crisi internazionali.

Non è un caso allora che il film si chiuda, con le immagini dei veri protagonisti di Argo e con le parole amare di Jimmy Carter, che rivendica molti anni dopo, il successo di una strategia che non pagò dividendi, allora.

Come ha scritto Mahola Dargis sul NYT, “in the end, this is a story about outwitting rather than killing the enemy, making it a homage to actual intelligence and an example of the same“. 1

In un anno elettorale ed in piena campagna per le presidenziali, raccontare questa storia è in fondo una scelta politica e di campo.

Affleck si ritaglia il ruolo del protagonista, Tony Mendez, senza brillare particolarmente, mentre sono i suoi comprimari a rendere elettrizzanti i dialoghi: John Goodman nel ruolo di Chambers e Alan Arkin in quelli di Siegel. Bryan Cranston è il capo di Mendez alla CIA e Victor Garber l’ambasciatore canadese, mentre Scoot McNairy è il più tormentato tra i sei diplomatici americani.

La fotografia di Rodrigo Prieto, restituisce i colori saturi e sovraesposti e la grana tipica delle pellicole anni ’70, conferendo al film il look credibile di un documento d’epoca. Il montaggio è perfetto così come le scelte musicali, che alternano l’elegante colonna sonora di Alexandre Desplat con le hit dell’epoca, senza mai prevaricare o sottolineare enfaticamente.

Qualcuno dei protagonisti ha chiarito che il film non rappresenta esattamente i dettagli ed i ruoli avuti dalle varie intelligence nell’operazione “canadian caper” ed aggiunge fatti e circostanze, per ovvie necessità narrative.

Affleck nelle didascalie finali ha reso merito al governo canadese per gli sforzi compiuti ed il coraggio dimostrato: “The involvement of the CIA complemented efforts of the Canadian embassy to free the six held in Tehran. To this day the story stands as an enduring model of international co-operation between governments“.

E anche questa è una scelta politica.

Da non perdere.

1. Manhola Dargis, Outwitting the Ayatollah With Hollywood’s Help, New York Times, 11.10.2012

33 pensieri riguardo “Argo”

  1. Dopo Gone Baby Gone e The Town, Ben Affleck regista fa nuovamente centro con Argo. Dopo un buon film di genere che si svincola dal genere stesso e un action movie come Dio comanda, Argo è un’opera matura, solida, granitica, di cuore e nervi saldi. Una di quelle pellicole che, forse facendo un passettino più lungo della gamba, ci fa affermare quanto Ben Affleck dietro la macchina da presa sia un “autore” sfaccettato e versatile. Ne parlo anche sul mio blog: http://onestoespietato.wordpress.com/2012/11/18/argo-quando-la-magia-del-cinema-abbindolo-linviolabile-teheran/ 😀

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