Dallas Buyers Club ***
Ron Woodroof era un elettricista di Dallas, appassionato di donne facili e rodeo.
Un cowboy texano, col cappello bianco in testa e gli stivali ai piedi.
Lo vediamo all’inizio, nella penombra del sottoscala di un’arena, mentre sniffa cocaina in compagnia di due disponibilissime ragazze. I suoi occhi sono però puntati sulla scena, sullo spettacolo dei tori.
E’ un poco di buono, il nostro protagonista: beve, fuma, si droga e frequenta spogliarelliste. Un incidente sul lavoro lo conduce in ospedale, dove gli comunicano che ha contratto l’HIV ed ha l’AIDS.
Secondo il medico che l’ha in cura gli restano solo 30 giorni di vita.
Woodroof scappa impaurito e disgustato, rifiutando lo stigma della “malattia degli omosessuali”. Ricomincia la sua vita sregolata e superficiale, ma poi sceglie di informarsi, di conoscere. All’incredulità iniziale si sostituisce la voglia di vivere: legge, studia, cerca di capire se ci sono cure possibili.
Intanto la compagnia farmaceutica che produce l’AZT, il primo farmaco che sembra avere qualche effetto sulla malattia, contatta l’ospedale che ha curato Ron, per iniziare la sperimentazione su un gruppo di pazienti.
La Food & Drug Administration spinge per i protocolli approvati e rifiuta qualsiasi cura alternativa, anche se l’AZT sembra avere molte controindicazioni.
Ron vorrebbe partecipare alla sperimentazione, ma questo comporta il rischio di essere tra i pazienti a cui verrà somministrato il placebo.
Cerca di ottenere il medicinale con mezzi illeciti, ma poi si rivolge ad un dottore che opera in Messico ed ha sperimentato un cocktail vitaminico, associato ad una proteina, che sembra dare migliori risultati ed evitare gli effetti collaterali devastanti dell’AZT.
Con spirito imprenditoriale e capacità di lottare per il proprio diritto alla vita, Woodroof importa dal Messico grandi quantità del cocktail, che la FDA non intende approvare.
Anche grazie all’amicizia improbabile e difficile con un travestito, Rayon, ed al supporto della Dott.ssa Eve Sacks, fonda il Dallas Buyers Club: non potendo vendere direttamente i medicinali ai pazienti, senza prescrizione e senza autorizzazione, crea un club privato, a cui si accede pagando una retta mensile ed ottenendo in cambio i farmaci per sopravvivere.
Intanto passano i giorni ed i mesi. La cura sembra funzionare. Ma gli interessi di Big Pharma e della FDA sono troppo grandi, per consentire a Woodroof di metterli in discussione.
Il film di Vallée ricostruisce perfettamente il clima di terrore del 1985, quando l’AIDS era solo una strana malattia, avvolta dal pregiudizio dell’omosessualità.
Woodroof in un attimo finisce per perdere tutto: gli amici lo evitano e lo prendono in giro, al lavoro va anche peggio, i medici stessi sembrano impotenti o compiacenti con la grande industria.
La sceneggiatura di Craig Borten e Melisa Wallack è capace di mantenersi in equilibrio perfetto tra molti registri diversi, costruendo un film di grande ricchezza drammatica, che esalta la performance dei suoi protagonisti.
Il racconto del milieu dei redneck, amici di Woodroof, si lega alla lotta del singolo contro le corporation e per libertà individuale; la scoperta dell’umanità e del dolore si unisce all’intuito imprenditoriale, così tipicamente americano: messo con le spalle al muro da una condanna a morte, il protagonista guarda in faccia la sua vita e la rimette in discussione, ricominciando letteralmente da capo.
E’ il mito della seconda opportunità, la sostanza che innerva un paese capace ancora di credere alla bellezza dei propri sogni ed alla forza dell’individuo.
E che è ancora capace di raccontarla quella bellezza, attraverso la forza di una storia magnifica, che ricostruisce la complessità di una battaglia personale e collettiva.
Il film di Vallée è un affresco potente e senza sbavature, che evita l’apologia e le scene madri, la retorica e le lacrime facili, che mette in scena un lento processo di reciproca comprensione, capace di spazzar via pregiudizi e ipocrisie.
Non ci sono solo indignazione e battaglia, ma compassione e coraggio.
E poi c’è Matthew McConaughey capace in questi anni della più straordinaria delle resurrezioni cinematografiche. Dopo gli esordi di Dazed and Confused, Contact e Amistad, la sua carriera si era eclissata in una stanca ripetizione di insulse commedie romantiche e ruoli da eroe d’azione. Poi la svolta indie e d’autore con una serie di personaggi sgradevoli, disperati e spiazzanti, con le radici ben piantate nell’america southern, a cominciare da Killer Joe e The Lincoln Lawyer, passando per Magic Mike, gli inediti Mud e Bernie, fino a questo straordinario ritratto.
McConaughey non è solo dimagrito 30 chili per interpretare il cowboy solitario di Vallée, ma gli ha regalato un’umanità appassionata, una determinazione inesausta, una fame di vita che esplode dal volto scavato, dagli occhi spiritati del protagonista. Con i capelli radi, i baffi anni ’80, il fisico scheletrico, coperto solo da jeans e magliette bianche, è lontanissimo dall’immagine tirata a lucido del protagonista di Magic Mike, eppure qui è altrettanto convincente, capace di sfumature interpretative che nessuno gli avrebbe riconosciuto un tempo.
Il film è cucito addosso a lui ed alla sua performance assoluta: è ancora il corpo attoriale al centro dell’arena, com’era per De Niro/La Motta o per Rourke/The Wrestler. Ron Woodroof è un loser che continua ad incassare colpi, incapace di uscire di scena. Ed allora non è un caso che il film finisca su un fermo immagine, nell’arena in cui tutto era cominciato.
Jared Leto, nei panni femminili Rayon, è altrettanto perfetto, senza mai esagerare nella caratterizzazione di un personaggi la cui parabola è comunque più classica e definita.
Di fronte ad un film come Dallas Buyers Club del canadese Jean Marc Vallée (C.R.A.Z.Y., Café de flore) si riconoscono ancora una volta gli ingredienti che fanno l’eccezionalità del cinema americano: sceneggiatura perfetta per toni e colori, interpretazioni insuperabili, realismo nel ritratto d’ambiente, regia personale e minimalista.
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