Il processo ai Chicago 7

Il processo ai Chicago 7 **1/2

La convention democratica di Chicago del 1968 rappresenta, nella storia americana del secondo Novecento, uno dei crocevia più significativi ed emblematici: le illusioni della lunga stagione dei diritti civili, che aveva attraversato gli anni ’60,  fino a esplodere nella Summer of Love e nei movimenti studenteschi di contestazione e libertà, si scontravano con il ritorno all’ordine, annunciato dai sinistri omicidi di Robert Kennedy e Martin Luther King e dall’escalation nella Guerra del Vietnam.

Nell’agosto del 1968 si danno appuntamento a Chicago i diversi gruppi della sinistra radicale e del movimento studentesco, anime molto distanti tra loro, in cui c’erano obiettori di coscienza gandhiani, hippies, pantere nere, leader politici, in pectore.

Quando a gennaio del 1969 John Mitchell riceve dal suo predecessore Ramsay Clark – in significativo ritardo – il passaggio di consegne come ministro della Giustizia, dopo il successo di Richard Nixon e la fine della presidenza di Lyndon Johnson, decide di vendicarsi di quelli che considerava avversari politici, costringendo il giovane e brillante procuratore federale Richard Schultz a intentare un processo agli otto rappresentati più in vista del movimento, accusandoli tutti di cospirazione, indipendentemente dal ruolo che ciascuno aveva realmente avuto, negli scontri sanguinosi con la polizia, durante giorni della convention.

Il film di Aaron Sorkin racconta i lunghissimi giorni del processo che si rivelerà, nonostante il diverso avviso dei difensori degli otto accusati, esattamente un processo politico alle idee e al ruolo che quegli otto rappresentavano.

Attraverso le testimonianze e i documenti, il film introduce una serie di flashback che raccontano i momenti più controversi e decisivi di quei giorni a Chicago.

Non solo lo scontro con le istituzioni cittadine guidate dal chiacchierato sindaco Daley, con la Guardia nazionale, la polizia, gli infiltrati dell’FBI nel movimento, ma anche lo scontro delle idee tra le diverse anime del movimento, sullo spazio che ciascuno doveva occupare sul grande palcoscenico della Storia che in quei giorni incrociava proprio la convention democratica.

Tra il più prudente e realista Tom Hayden, che sposerà Jane Fonda e arriverà al Senato degli Stati Uniti, e il duo hippie, irriverente e sarcastico, formato da Hoffman e Rubin, passava il filo sottile della diffidenza.

Per non parlare di Bobby Seale, il leader delle Pantere Nere, coinvolto nel processo ingiustamente e privo di avvocato, solo per ‘spaventare la giuria con una faccia nera‘, che predicava la violenza della rivolta, come risposta possibile alla violenza istituzionalizzata, che appariva lontanissimo a confronto con il maturo e corpulento David Dellinger, obiettore di coscienza durante la Seconda Guerra Mondiale e pacifista della prima ora.

Sorkin, al suo secondo lavoro come regista, dopo aver scritto alcuni dei copioni più affilati e provocatori degli ultimi vent’anni di cinema americano (The West Wing, The Social Network, Steve Jobs, Moneyball – L’arte di vincere), si affida quasi interamente ad un cast magnificamente scelto e ad un copione molto più tradizionale, di quanto avremmo voluto.

Il film segue un’impostazione processuale piuttosto risaputa e non lo aiuta il fatto che buoni e cattivi siano così distinti nettamente: il giudice tiranno, che arriva a far imbavagliare e ammanettare Seale in aula, che guida il dibattimento con mano pesante e sprezzo per il due process of law; l’accusa surreale, ispirata da John Mitchell, una delle anime nere del Watergate; gli otto imputati, dipinti in fondo come bravi ragazzi con grandi ideali, travolti dalla brutalità della polizia, delle istituzioni; lo spettro della Guerra del Vietnam e della leva obbligatoria alle loro spalle; l’unico afroamericano trattato peggio di tutti, imprigionato, privato della difesa, finanche malmenato e vilipeso; gli avvocati della difesa impotenti di fronte all’uso politico della giustizia e del potere.

Ad un certo punto Sorkin ci mostra persino la testimonianza chiave, quella all’ex ministro Ramsay Clark, estromessa dal processo e nascosta alla giuria, come l’ennesimo sopruso di una farsa giudiziaria, orchestrata con sadica perfidia dal giudice Hoffman.

Insomma, ci sono tutti gli elementi per sollecitare gli animi più sensibili e anche quelli meno appassionati: i margini di ambiguità spariscono, il racconto è a senso unico e piuttosto prevedibile nei suoi sviluppi.

La stessa capacità di Sorkin di far emergere attraverso il dialogo tra i personaggi, idee, sogni, contraddizioni, personalità, caratteri, qui è assai meno centrata e a fuoco rispetto al solito.

Solo alla fine, quando Hoffman e Hayden si scontrano sul mancato uso di un pronome, dal palco come nel manifesto di Port Huron, la scrittura di Sorkin guadagna la solita implacabile brillantezza e profondità semantica.

I ruoli sono assegnati sin da subito, non ci sono dubbi o sfumature, ciascuno interpreta la sua parte sino in fondo, senza sorprese e nessun momento di Il processo ai Chicago 7 pareggia l’intensità drammatica di Codice d’onore, l’altro courtroom drama di Sorkin.

Forse perchè questo processo è, sin dall’inizio, uno strumento pensato per occultare la verità e imporre la forza del Potere, piuttosto che un meccanismo capace di rivelare la verità – o almeno tentare di farlo.

Il gioco è truccato e non si può che assistere, in modo sempre più passivo, alla recita a cui tutti sono chiamati a partecipare.

Se i limiti del Sorkin regista erano già abbastanza evidenti in Molly’s Game, il suo esordio, qui la sua messa in scena diventa tanto più invisibile, quanto più era necessaria un’idea di cinema forte, radicale almeno quanto i suoi protagonisti, per affondare le mani in quella stagione così controversa e ancora così feconda, che solo negli ultimi anni ci ha regalato due film memorabili e antitetici, come Vizio di forma e C’era una volta a… Hollywood.

L’unica scelta di Sorkin sembra essere quella con cui apre e chiude il film: la retorica dei caduti in Vietnam, a cu tutti possono rendere omaggio, conservatori e progressisti, perchè vittime o martiri di un sistema di potere, che gli imputati vorrebbero condannare nel processo, ma che resta invece sempre sullo sfondo, fagocitato dallo show mediatico e dallo scontro di personalità, che si prende tutto lo spazio della scena.

Alla fine restano soprattutto le grandi interpretazioni: quella sontuosa di Mark Rylance, nei panni dimessi dell’avvocato Kunsler, testardo e spesso impotente, quella del lanciatissimo Yahya Abdul-Mateen II, che dopo Watchmen, vedremo anche nel prossimo Matrix e in Mad Max – Furiosa, quella della coppia hippie Sasha Baron Cohen e Mark Strong, lontani dai ruoli in cui di solito li avevamo incasellati e di Michael Keaton, che in una sorta di lungo cameo, ruba la scena a tutti.

L’America divisa del 2020 con la convention democratica nuovamente preda di scontri e rivendicazioni, questa volta guidate dal movimento Black Lives Matter, sembra molto vicina a quella di 50 anni fa e il film di Sorkin non poteva essere più tempista nel ricordarcelo.

Tuttavia il suo film è un contributo non particolarmente ispirato al dibattito, che infuria in questi ultimi giorni di campagna elettorale, la più squallida e sconfortante dell’ultimo secolo di politica americana.

 

 

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