I ‘Pentagon Papers’ erano uno studio, commissionato dal Segretario alla Difesa, Robert McNamara, nel corso del 1967, ad un gruppo di trentasei analisti, affinchè realizzassero una sorta di enciclopedia della Guerra del Vietnam, a partire dai primi interventi delle amministrazioni Truman e Eisenhower nel sud est asiatico, subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale.
McNamara, che era stato scelto da Kennedy e confermato da Johnson, voleva lasciare una traccia scritta, per gli storici, al fine di prevenire nuovi errori strategici delle future amministrazioni.
Gli analisti condussero lo studio in gran segreto, utilizzando documenti già esistenti al Pentagono, ma nè la Casa Bianca, nè le altre agenzie furono mai informate.
Il lavoro finale, intitolato United States – Vietnam Relations, 1945–1967: A Study Prepared by the Department of Defense, era composto da 3.000 pagine di analisi storiche e 4.000 pagine di documenti, divisi in 47 volumi, classificati top secret.
Lo studio smascherava le bugie e le strategie segrete di almeno quattro presidenti, esponendo in particolare Lyndon Johnson, che aveva continuato a mostrare in pubblico intendimenti completamente disattesi in privato. La propaganda governativa sull’andamento positivo della guerra, veniva smentita chiaramente dalla realtà di un conflitto tragicamente sbagliato. L’intervento nel sud est asiatico serviva non a portare libertà, ma a limitare l’influenza cinese nel continente e l’inasprirsi del conflitto in Vietnam e l’escalation militare era giustificata dall’amministrazione principalmente con la necessità di evitare un’umiliante ritirata americana.
Il lavoro, che McNamara aveva commissionato a futura memoria, avrebbe potuto avere implicazioni politiche rilevanti e decisive, qualora fosse stato rivelato all’opinione pubblica americana.
Ne furono stampate solo 15 copie, due delle quali finirono alla RAND Corp., un think tank politico, dove lavoravano alcuni degli analisti impegnati nella sua realizzazione, in particolare Daniel Ellsberg, che, dopo aver maturato una posizione decisamente ostile al coinvolgimento americano in Vietnam, fotocopiò segretamente parte dello studio nel 1969 e lo offrì sia al consigliere della sicurezza nazionale di Nixon, Henry Kissinger, sia al senatore William Fulbright, capo della commissione affari esteri del Senato, sia al senatore George McGovern, apertamente contrario alla guerra. Ma a nessuno sembrava interessare.
Ellsberg si rivolse così alla stampa e nel febbraio del 1971 contattò Neil Sheehan del New York Timas a cui consegnò 43 volumi.
Il Times, dopo una lunga fase di studio, cominciò così a pubblicare articoli ed estratti dal memorandum il 13 giugno 1971, ma un’ingiunzione del ministro della giustizia intimò di non proseguire nelle rivelazioni, che secondo l’amministrazione Nixon mettevano a rischio la sicurezza nazionale.
E’ proprio qui che comincia la storia che Liz Hannah e Josh Singer, premio Oscar per Spotlight, hanno scritto per Steven Spielberg, raccontando il passaggio di testimone tra il New York Times e quello che allora era un buon giornale locale, il Washington Post, che la famiglia di Kay Meyer Graham, possedeva sin dal 1933 e che era passato da suo padre a suo marito e quindi a lei nel 1963, quando quest’ultimo si era ucciso, al culmine di una lunga malattia mentale.
La Graham era parte della bella società della capitale, aveva conosciuto bene i Kennedy, Reagan, Kissinger, Warren Buffett ed era intima amica di McNamara, ma non sembrava avere la forza di guidare il Post verso le nuove sfide che l’informazione e la politica degli anni ’70 le avevano riservato.
La vediamo incerta e poco ascoltata nelle riunioni del consiglio d’amministrazione, costretta in un ruolo forse più grande di lei. Il Post si sta quotando in borsa e la direzione illuminata di Ben Bradlee spinge la redazione verso nuove sfide.
Proprio la Graham viene a sapere dall’amico McNamara, che il Times avrebbe pubblicato la mattina successiva, una storia su di lui e sulla guerra in Vietnam. Avvertito immediatamente Bradlee, la redazione del Post si mette all’opera per inseguire le tracce lasciate dallo studio e risalire alla fonte, alla talpa.
Le pubblicazioni del Times intanto vengono interrotte dai ricorsi del governo, ma Ben Bagdikian, uno dei giornalisti investigativi di Bradlee, riesce a scoprire il ruolo di Daniel Ellsberg nella rivelazione dello studio e ad averne 400 pagine: fogli tuttavia non numerati e senza un vero ordine.
Mentre il team editoriale del Post si ritrova così a casa di Bradlee a cercare di mettere ordine tra i documenti e a scrivere un pezzo per l’edizione mattutina, rilanciando l’attenzione dell’opinione pubblica, colpita dalle prime rivelazioni del Times, Kay Graham è invece coinvolta in una battaglia molto più personale: con i suoi consiglieri e i suoi avvocati – che le sconsigliano la pubblicazione, dopo le ingiunzioni del Procuratore Generale – poi con le banche – advisor della quotazione di borsa – e con il suo stesso mondo, quello che ha coperto le bugie di McNamara e degli altri, lasciando morire in guerra migliaia di ragazzi americani.
Il lavoro di Spielberg è semplicemente magistrale. Come sempre attentissimo a cogliere lo spirito del tempo e a coltivare il suo amore per la storia americana, il regista di Lincoln e Il ponte delle spie, ha trovato nella storia di The Post, tutto quello che un sincero democratico come lui poteva cercare, per ricordare agli Stati Uniti della post-verità, dei tweet presidenziali, dei whistleblower imprigionati e dell’informazione spazzatura, che il nostro passato ha ancora molto da insegnarci.
La battaglia dell’informazione libera contro l’amministrazione e il potere, per la pubblicazione di documenti riservati, la tutela delle fonti e il diritto alla conoscenza e alla verità del pubblico americano, non è solo retorica di un tempo passato, ma suona dannatamente attuale, proprio nei giorni del Russia-Gate e dell’opacità assoluta, che regna nel governo Trump.
Negli anni della comunicazione istantanea e globale, della cacofonia informativa e della selezione sempre più incerta delle fonti, Spielberg, in fondo, ci ricorda quanto siano importanti, per la qualità della nostra democrazia e della nostra vita, i pilastri del giornalismo investigativo, la libertà editoriale e la sua responsabilità.
Spielberg è un regista che preferisce la sottolineatura e la chiarezza, alle sfumature e alle ambiguità. Il suo film procede senza mai mettere in discussione i suoi personaggi e con un’evidenza forse un po’ troppo insistita sui suoi principi. Ma questi sono da sempre i limiti del suo cinema ottimista e sentimentale, profondamente classico.
La pubblicazione dei Pentagon Papers fu decisiva per cambiare la percezione dell’opinione pubblica americana sulla Guerra del Vietnam, perchè cominciò a scalfire il muro della propaganda e del giornalismo embedded.
Su Daniel Ellsberg sono stati girati molti film e documentari, così com’è avvenuto per Edward Snowden, Chelsea Manning e Julian Assange.
Ma ancor più importante è forse raccontare il lavoro di chi ha permesso la pubblicazione e l’interpretazione di quei documenti, i limiti che il giornalismo investigativo ha dovuto ricontrattare ogni volta con le altre istituzioni, le responsabilità personali e imprenditoriali in gioco, gli interrogativi etici, che inevitabilmente si accompagnavano a quelle scelte.
Non è un caso allora che Spielberg si soffermi, proprio nel momento di maggior tensione drammatica del film, sulle macchine della vecchia tipografia del giornale, sulla pesantezza ottocentesca dei caratteri, sulla composizione manuale, sulle presse. E’ lì, in quell’officina piena di fumo e inchiostro, che Spielberg intende forse ricordarci del ‘peso’ di una notizia, della fatica e del valore che dovrebbe avere.
The Post si affida ad una coppia di attori formidabili: Meryl Streep, innanzitutto, nei panni di Key Graham, capace di mostrare tutti i dubbi, le incertezze, i tormenti che accompagnano una consapevolezza sempre più evidente del proprio ruolo e dei propri poteri. In una prova maiuscola, in cui fragilità e determinazione si alternano continuamente, restano nella memoria almeno un paio di scene: quella in cui la Graham si presenta a casa di McNamara rinfacciandogli, senza mai cambiare tono di voce, tutte le sue responsabilità per lo stillicidio di vita americane in Vietnam e quella notturna in cui, in camicia da notte, riceve Bradlee, i suoi avvocati e consiglieri, un minuto prima che le rotative stampino il Post, con il pezzo sui Pentagon Papers.
Tom Hanks è invece il direttore Ben Bradlee, burbero e sbrigativo, sempre con i piedi sulla scrivania, innamorato del proprio mestiere.
Accanto a loro un cast di comprimari a cui la sceneggiatura assegna un ruolo mai secondario, nel ricostruire la coralità del racconto, lo scontro delle idee e dei principi.
La regia di Spielberg è come sempre impeccabile, classica, con qualche cedimento sentimentale solo nel finale, impreziosita dal lavoro superbo di Janus Kaminski, che attenua certi suoi eccessi luministici, per restituire invece la freddezza grigia di Washington e del grande open space della redazione del Post, ispirandosi al lavoro immortale di Gordon Willis, per Tutti gli uomini del presidente.
La colonna sonora di John Williams è discreta e incalzante, come nelle sue prove più mature, i costumi di Ann Roth sono meravigliosamente indovinati, segnando il passaggio tra il rigore dei ’60 e i colori e le esagerazioni dei ’70.
Nella sua lunga carriera, Spielberg è stato quasi sempre il regista di uomini ordinari impegnati in circostanze e tempi eccezionali, è stato il regista dei figli senza padri e delle famiglie impossibili. Anche questa volta è così, ma c’è una donna al centro della scena. Key Graham è stata una paladina della grande informazione libera americana, spingendo il giornale diretto da Ben Bradlee a combattere le battaglie più importanti degli anni ’70.
In The Post ne vediamo la lenta trasformazione da ricca ereditiera, costretta in un ruolo solo formale, ad avvocato della verità, disposta a mettere a rischio la sua legacy, fino al giudizio della Corte Suprema.
The Post arriva al momento giusto, per ricordare il ruolo inesauribile del grande giornalismo investigativo, come pilastro di ogni democrazia matura. Ma l’America di Trump sarà capace di coglierne le provocazioni e lo spirito liberale o si limiterà a subirlo distrattamente, come un reperto un po’ datato di un passato sempre più lontano?