American Hustle

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American Hustle ***

Il nuovo anno cinematografico non poteva iniziare meglio.

American Hustle è una storia di amori, truffe e scandali politici, che comincia nella New York della seconda metà degli anni ’70 e ne mostra tutta la fragilità morale e identitaria.

Nell’America scossa dal Vietnam e dal Watergate, ognuno cerca di sopravvivere, reinventando se stesso. David O.Russell, coadiuvato da un reparto di trucco e costumi da Oscar, restituisce tutta l’ambiguità di quel momento storico, costruendo una screwball comedy dai tempi comici perfetti e raccontando il milieu dei piccoli criminali, con una felicità espressiva, che molto deve al lavoro sugli attori, come sempre impressionante.

Irving Rosenfeld è un piccolo imprenditore che “si arrangia”. Gestisce una catena di lavanderie, commercia in opere d’arte false o trafugate ed è un con-artist: truffa risparmiatori e gente bisognosa di una liquidità, che le banche non possono garantire.

Sposato ad una moglie giovane e spiantata, Rosalyn, incontra ad una festa a Long Island la sua anima gemella: Sydney Prosser, bellissima, attraente, una stripper del New Mexico dal fisico mozzafiato, amante della musica di Duke Ellington, decisa a cambiare vita ed a reinventarsi.

Nonostante Irving non sia certo un adone ed a dispetto di un riporto di capelli di imbarazzante complessità, tra i due scatta un’attrazione irresistibile, che non arretra neppure quando Sidney scopre la vera natura delle attività di Irving.

Anzi, i due cominciano a fare coppia anche sul lavoro: Sydney diventa così l’inglese Lady Edith, con entrature nella city londinese.

La loro intesa procede alla grande, sino a quando l’agente FBI, Richie DiMaso non li incastra e, desideroso di fare carriera, non li costringe a lavorare per lui, per smascherare altri truffatori.

Solo che il gioco si fa sempre più grande, viene coinvolto un potente sindaco del New Jersey, Carmine Polito, un gruppo di parlamentari, un senatore, ed un boss della mafia di Miami, che risponde direttamente a Meyer Lansky.

Dire di più sarebbe un peccato, ma la forza di American Hustle non è tanto nella perfezione del meccanismo narrativo e nel gioco di scatole cinesi orchestrato da Irving, da Sydney e da Rosalyn, quanto nella straordinaria performance dei cinque protagonisti, coinvolti in un tour de force in cui verità e menzogne si confondono sempre di più.

Tutti recitano una parte, nella vita e nel piano dell’FBI, ma ognuno ha un proprio disegno e nessuno è davvero sincero, nell’America disillusa dalle menzogne di Nixon. Eppure Russell, con sensibilità tutta moderna, quando lo scandalo finisce per coinvolgere anche sindaci e parlamentari, fa dire al suo protagonista che bisognerebbe fermarsi, che colpire ancora la fiducia degli americani nel sistema politico non è una buona idea.

Irving è un truffatore, ma non un uomo completamente malvagio: le relazioni umane hanno un valore e gli amici non si tradiscono, come insegna un antico codice criminale.

Russell ricostruisce alla perfezione l’aria del tempo e pur ispirandosi al vero scandalo ABSCAM – raccontato con dovizia di particolari nella sceneggiatura di Eric Warren Singer – se ne allontana decisamente, interessato più al destino dei suoi personaggi fuori dall’ordinario, che alla verosimiglianza storica.

I suoi protagonisti sono spinti da un’ambizione fuori misura, da una follia e da un’avidità in qualche modo affascinante. Russell comincia in media res, ma poi usa la voce fuori campo di Sydney e Irving, per tornare indietro e raccontarci la loro storia dall’inizio, spingendoci nel vivo del racconto.

Christian Bale è Irving: ingrassato ed imbolsito, con una pettinatura comica e tragica assieme, gli occhi nascosti da un paio di grandi occhiali, è il migliore di un gruppo magnifico.

Come al solito la sua capacità mimetica è impressionante. I suoi sono però quasi sempre personaggi con cui è difficile identificarsi: tormentati, oscuri, freddi e distaccati, folli e disperati sino al martirio.

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Questa volta invece Russell è riuscito a costringere Bale a mettere in scena tutta la sua fragilità, la sua umanità. Con il solito understatement, Bale si nutre di silenzi, di occhiate, di piccoli gesti con cui si aggiusta gli occhiali o si sistema il riporto.

Il suo è l’unico vero personaggio tragico nella commedia di Russell. Innamorato di Sidney, ma incapace di abbandonare la moglie ed il figlio adottivo, è usato dalle due donne, come dall’FBI, ma saprà rimettere in piedi la sua vita, con la sicurezza che sembra essere il segreto del suo fascino.

Bale è uno dei grandi interpreti della sua generazione, che ricorda molto lo sguardo triste e malinconico del primo De Niro.

Accanto a lui si muovono altri quattro interpreti da applausi: Jeremy Renner, nei panni del sindaco Polito non era mai stato così convincente. Un populista che finisce travolto dallo scandalo, ma che appare sostanzialmente onesto, di buon cuore, capace di tutto per la sua comunità.

Bradley Cooper, con i capelli ricci e la barba, è l’agente FBI, che pensa di avere un grande avvenire di fronte a sè: mano a mano che lo scandalo monta, la sua sicurezza e la sua arroganza crescono di pari passo. Memorabili i suoi duetti con il suo superiore, interpretato da Louis C.K..

Ma la vera forza motrice del film sono le due donne: Jennifer Lawrence, che interpreta la moglie Rosalyn, ed Amy Adams, nei panni succinti dell’amante Sydney.

La prima è il solito fiume in piena: travolgente, volgare, impavida come in Il lato positivo, la Lawrence è una manipolatrice persino più in gamba del marito truffatore.

Il modo con cui riesce a rivoltare le situazioni in suo favore è davvero stupefacente. Dopo l’Oscar vinto l’anno scorso ed il successo travolgente di Hunger Games, la Lawrence non è più nemmeno una sorpresa.

Amy Adams è ancor più convincente nel ruolo di Sydney. Vestita con abiti che lasciano ben poco all’immaginazione e ne esaltano la fisicità, mostra ancora una volta la sua prodigiosa versatilità interpretativa. Qui il suo ruolo è davvero doppio: mentre Sydney è una donna fragile e sempre in equilibrio precario, Lady Edith è una donna sicura di sè e della propria sessualità, che usa la seduzione per vincere ogni resistenza. Russell la costringe anche a recitare completamente struccata, nei suoi duetti con Irving, tra paura e desiderio e ce la restituisce in tutta la sua vibrante emotività.

Quando però le due donne alla fine si incontrano, ad una festa organizzata dal sindaco Polito, sono scintille: un vero duello verbale e sensuale, senza esclusione di colpi.

Il regista usa un metodo del tutto particolare per riprendere i suoi attori. Si posiziona subito dietro alla macchina da presa e gli suggerisce cambiamenti continui ai dialoghi, improvvisando con loro durante le riprese. L’uso della camera a spalla e della steadycam, per stare addosso ai primi piani dei suoi protagonisti, racconta una nuova declinazione dei tradizionali micro-carrelli alla Ballhaus e del campo-controcampo, spesso radicalmente omesso, in favore di inquadrature in cui entrambi gli attori sono contemporaneamente in campo, grazie all’estrema mobilità della macchina da presa.

Non è un caso se sia l’unico ad essere riuscito a far recitare davvero Robert De Niro negli ultimi 15 anni: anche qui, come ne Il lato positivo, compare in un piccolo ma decisivo ruolo, mostrando di avere ancora l’intensità dei suoi anni migliori.

American Hustle è certamente il miglior film di Russell sino ad ora, al culmine di un periodo di particolare felicità espressiva. Sono lontani gli anni delle risse sul set e delle sue proverbiali scenate con gli attori.

Forse Russell non raggiungerà mai il livello di Martin Scorsese, ma ha imparato perfettamente la sua lezione e quella dei classici anni ’30 e ’40: secondo alcuni il suo è un cinema manierista, che si nutre dello stile dei suoi maestri, che cambia pelle di film in film, passando dall’epica picaresca di Three Kings, alla commedia alla Charlie Kaufman di I heart Huckabees, dalla screewball di Il lato positivo fino al ritratto sportivo di ascesa e caduta di The Fighter.

Qui siamo dalle parti di Quei bravi ragazzi, Una vedova allegra…ma non troppo o di Boogie Nights, se volete, ma non c’è nulla di male: il film funziona a meraviglia, grazie ad una regia personale ed al servizio degli attori, ad una fotografia calda e coinvolgente, ad un montaggio emozionale, che la poderosa colonna sonora rende trascinante.

Da non perdere.

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21 pensieri riguardo “American Hustle”

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