Il diario di Cannes 2010 – 6

Film di giovedì 20 maggio 2010:

Tamara Drewe di Stephen Frears – Fuori concorso **1/2

Solo gli inglesi quest’anno sembrano essere capaci di restituire con leggerezza il lato comico e quello drammatico della vita. Dopo il bellissimo Another year di Leigh, anche Frears si cimenta con un racconto sulle quattro stagioni, ambientato nella campagna inglese, dove un romanziere di successo e la moglie gestiscono un grazioso cottage per scrittori, in cerca d’ispirazione. A turbare la noiosa routine fatta di buone maniere, mucche al pascolo e piccoli pettegolezzi, arriverà Tamara Drewe, una giornalista dell’Independent, erede di una vicina magione, capace di far perdere la testa a scrittori, batteristi punk e gioventù locale.

Un classico gioco degli equivoci, aggiornato ai giorni nostri, ma non troppo. Mail e cellulari sostituiscono lettere e confidenze, ma siamo sempre fermi sostanzialmente all’ottocento inglese, nonostante il soggetto sia tratto da una moderna graphic novel.

Eppure Frears sta al gioco con piacere, dirigendo un cast di perfetti caratteristi ed una giovane diva, Gemma Arterton, non particolarmente espressiva, ma perfetta nel ruolo della preda.

Un gustoso divertissement festivaliero…

Blu Valentine di Derek Cianfrance – Un certain regard **1/2

Secondo film di Cianfrance,  patrocinato da Harvey Weinstein ed interpretato da due star del cinema indipendente, come Ryan Gosling e Michelle Williams, questo Blue Valentine è un elogio funebre sull’amore.

Un film di durezza inaspettata, di tenerezze vane, di risentimenti che montano incomprensibili.

Cianfrance decide di raccontare la storia di una giovane coppia, incrociando le immagini angoscianti dell’ultimo desolante weekend della coppia – nel quale esploderà una crisi covata a lungo – a quelle del loro primo incontro, del colpo di fulmine, del corteggiamento e del matrimonio.

La scelta narrativa, pur già ampiamente abusata – non ultimo in 500 giorni insieme, con esiti assai più originali – potrebbe anche funzionare se il regista non si affidasse interamente all’improvvisazione dei due attori. Il racconto perde pezzi, si sfalda, Cianfrance si limita ad illustrare in belle immagini una separazione, che non sembra avere alcuna ragione.

Il ritratto femminile è desolante ed incomprensibile, quello maschile debole e fallimentare: eppure l’unione di questi due personaggi mediocri, due loser, usciti da un film degli anni ’70, sembra destinata a durare, anche grazie ad una scelta d’amore e ad una figlia amatissima.

Quello che manca, nella sceneggiatura di Cianfrance – riscritta per molti anni prima di raccogliere i finanziamenti necessari alla produzione e poi accantonata in fase di riprese, per lasciare la più ampia libertà ai due attori – è il conflitto, quello che tradizionalmente è l’atto secondo della tripartizione classica: vediamo la presentazione dei personaggi attraverso i flashback e poi assistiamo alla dissoluzione di un rapporto, i cui motivi rimangono del tutto inspiegati ed oscuri.

Sembra quasi di tornare all’improvvisazione controllata di Cassavetes, al suo gioco sugli attori, alla sua camera a mano mobilissima ed incollata al viso dei suoi personaggi.

La mancanza di struttura è il suo motivo di originalità ed anche il suo limite.

Forse il giovane regista americano vuole dirci proprio questo: che l’aridità sentimentale e la debolezza della sua – della nostra – generazione non ha bisogno di motivazioni, per decidere, una mattina, di lasciarsi tutto alle spalle?

Gosling e la Williams sono magnifici, come sempre, ma in questo caso ancora di più, proprio perchè il male di vivere, l’insoddisfazione dei loro personaggi piccolo borghesi è tutto fuori campo, nei loro silenzi, nei loro sguardi impietosi, nel disprezzo che travolge tutto improvvisamente.

Cianfrance è certamente un regista da tenere d’occhio, purchè la fragilità del suo racconto non diventi maniera espressiva.

Fair Game di Doug Liman – In concorso **1/2

Il film di Doug Liman (The Bourne Identity, Mr & Mrs. Smith) è l’unico film americano del concorso e ripercorre con uno stile tipicamente anni ’70 la storia di Valerie Plame, agente della CIA sotto copertura, che la Casa Bianca bruciò nel corso del 2003, dopo che il marito, l’ex ambasciatore Joe Wilson aveva scritto un articolo sul New York Times per negare l’esisteza di armi di distruzione di massa acquistate dal regime iracheno in africa.

Wilson era stato inviato proprio dal Vicepresidente Chaney, su incarico della CIA in Niger per seguire la pista di un sedicente accordo tra il governo locale e quallo iracheno per ingente carico di uranio, da utilizzare per il programma atomico del regime di Saddam.

In realtà Wilson non trovò nulla e lo riferì alla CIA. Le sue informazioni vennero sapientemente ignorate e manipolate, proprio nel famoso discorso sullo stato dell’Unione che condusse gli Stati Uniti alla Guerra in Iraq.

Per intimidire ed annichilire ogni voce contraria, il governo Bush rivelò quindi l’identità della moglie di Wilson e la costrinse a lasciare l’Agenzia.

Liman è efficace nella prima parte, che descrive magnificamente e con spirito liberal, la costruzione della grande menzogna. Bush voleva un pretesto per poter concludere il lavoro cominciato dal padre con Desert Storm ed il coinvolgimento del regime Iracheno negli attacchi dell’11 settembre era troppo labile. La propaganda diabolica dei neocon richiedeva qualcosa di più ed allora ecco che tubi di alluminio diventano materiale che testimonia un programma nucleare, ecco che voci incontrollate su carichi di uranio, nonostante l’evidenza contraria devono diventare prove di un impegno nucleare.

La realtà viene astutamente manipolata, anche attraverso l’informaizone di regime, i blog, internet e le nuove forme di comunicazione di massa. Non importa se si tratta di una bugia o della verità, quello che conta è rilanciarla di continuo, facendo leva sulla paura.

Ecco l’elemento chiave del film di Liman, la paura: timore di un nemico lontano che non si conosce, timore di esporsi per smascherare le menzogne, timore per la propria vita e per la propria famiglia.

Questo è stato il regime di George W. Bush e dei suoi diabolici consiglieri: un governo fondato sulla paura.

La seconda parte di Fair Game è più convenzionale e melodrammatica: marito e moglie rispondono diversamente al disvelamento della loro vita e finiscono per allontanarsi, alemno sino a che la sete di giustizia non tornerà ad unirli.

Inutile dire che i due attori, Sean Penn e Naomi Watts, di nuovo insieme dopo 21 grammi, sono bravissimi e convincenti.

Quello di Liman è cinema civile, forse fermo ad un’iconografia e ad uno spirito da new hollywood. Niente di nuovo, certo, ma anche nulla di sbagliato, in fondo.

Poetry di Lee Chang-dong – In concorso **

Poetry è il racconto degli ultimi giorni di vita di una ancor giovane nonna, che vive con il nipote adolescente, costretto a casa della donna, dalla separazione dei genitori.

Sempre dignitosa, elegante, ben vestita, si guadagna da vivere accudendo un anziano, rimasto paralizzato.

Improvvisamente convocata dai genitori di alcuni compagni di scuola del nipote, è costretta a fare i conti con un odioso crimine commesso dai ragazzi.

Al grigiore di una vita difficile e dell’alzheimer che comincia a divorare la sua memoria, cercherà di contrapporre l’evasione nella poesia e nella contemplazione della bellezza delle cose.

Confesso di aver provato sensazioni diverse durante le due ore e venti del nuovo film di Lee Chang-dong: ammirazione, innanzitutto, per la straordinaria Yun Junghee, attrice coreana, ritiratasi dalle scene molti anni fa e convinta da Lee a ritornare per questo ritratto malinconico; fastidio, per le lunghe scene ambientate ad un corso di poesia e poi durante i reading a cui la protagonista partecipa; compassione, quando la donna si fa carico anche delle colpe dei figli, in un finale che riporta circolarmente alle acque del fiume dei suicidi, con le quali il film si apre.

Purtroppo Lee non ha la stessa capacità di racconto di altri registi coreani della sua generazione e questo Poetry sconta molti momenti in cui sembra girare a vuoto ed altri di dubbio gusto.

Certo, in un concorso debole come quello di quest’anno, ci può essere spazio anche per un premio maggiore, ma siamo certo lontani da un capolavoro come Mother, del connazionale Bong Joon-ho, visto a Cannes l’anno scorso. Anche quello era il ritratto di una donna, alle prese con l’orrore di un delitto familiare e le miserie della giustizia: altro spessore però, altra cultura, altra amara lucidità.

Draquila di Sabina Guzzanti – Proiezioni speciali **1/2

Oggetto di polemiche in Italia e di sdegnosi rifiuti da parte del Ministro della Cultura, che ha disertato la Croisette, il documentario di Sabina Guzzanti sulla ricostruzione de L’Aquila è piaciuto così tanto ai selezionatori ed agli spettatori, che è stato riprogrammato anche per noi accrediti cinephiles.

Ed in effetti il lavoro della Guzzanti è interessante, scomodo e necessario, che guarda al modello di Michael Moore, limitando però l’esposizione diretta della regista.

E non si ride in Draquila. O meglio, gli unici a ridere sono quegli imprenditori intercettati la notte del sisma, che sghignazzano pensando alla montagna di denaro, in gioco con la ricostruzione.

Certo si tratta di un film a tema: attraverso la Protezione Civile e con l’aiuto di costruttori senza scrupoli, il premier intende(va ?) estendere il suo potere di influenza e il suo potere mediatico, facendo scorrere nel contempo un fiume di denaro e appuntandosi la spilletta di ricostruttore della città.

Fortunatamente ci si è messa di mezzo la magistratura, le indagini hanno svelato le macchinazioni di una cricca che fa orrore e i piani a lungo termine sono stati rimandati.

Rimangono i terremotati, costretti in tende in cui vige un rigoroso codice militare, trasferiti a 70-80 km di distanza negli alberghi della costa, oppure beneficiari dei nuovi costosissimi appartamenti, addirittura tre volte anti-sismici, come riferisce un architetto interpellato.

Case arredate di tutto e soprattutto di televisori, dai quali trasmettere e diffondere il verbo berlusconiano. Case però da restituire immacolate, una volta finita l’emergenza…

La Guzzanti intervista politici, giornalisti, semplici cittadini, rappresentanti sindacali, scontrandosi con i vincoli burocratici, costruiti ad arte per evitare di mostrare la realtà abruzzese per come è.

Certo la Guzzanti avrebbe potuto limitare la parte relativa alla nascita di Milano 2 e della fortuna del cavaliere di Arcore, ma complessivamente Draquila è rigoroso e documentato e non evita di mettere in luce le carenze, i ritardi e l’impotenza dell’opposizione.

Avremmo preferito vederlo in televisione un documentario così: ma, come insegna Moore, se i mezzi d’informazione sono addomesticati ed embedded con il potere, allora deve essere il cinema a farsi carico di aprire gli occhi e di lasciare una testimonianza.

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